«Cari genitori», lo sguardo che cura o trascura
Ogni mercoledì la rubrica «Cari genitori», curata da Giuseppe Pino Maiolo, propone pillole di riflessione educativa, che potranno partire da una notizia di attualità.
«Mi bastava uno sguardo da piccolo per capire da mia madre se stavo facendo qualcosa di buono o di negativo». Una frase che ho sentito dire una quantità di volte. Ed era così! Non servivano tante parole, bastavano gli occhi della mamma per dare un consenso o contenere un comportamento non opportuno.
Il silenzio non corrispondeva alla distanza, anzi nell’assenza di parole si cresceva perché c’erano gli occhi ovvero gli occhiacci quando ne combinavi una che non andava ma anche quello sguardo dolce che diceva «Ti voglio bene». Insomma era lo sguardo che ti dava una ricompensa utile, quando ti comportavi bene e non come ora che si abbonda di «Ma che bravo che sei!». Allo stesso modo erano i suoi occhi brutti che disapprovavano il tuo comportamento e senza una parola tu capivi.
Il rapporto madre-figlio
La relazione madre-figlio comincia presto come reciproca contemplazione che guida lo sviluppo della relazione e apre al desiderio di comunicare. Uno sguardo «vocale» fatto di suoni non di parole, ma già interazione, presenza, contatto, corpo che vibra che dice «Ti voglio bene», «Tu sei con me e io sono per te».
Anche da grandi, nell’intimità di una relazione affettiva come pure in un rapporto sociale è lo sguardo che ti dice cosa sta accadendo e in quale rapporto sei con l’altro. Agli amanti non servono le parole, bastano gli occhi che si incontrano e avviano narrazioni infinite. Ai bambini, lo sguardo è lo stretto necessario utile a quell’inconsapevole empatia cui ci destinano i nostri neuroni specchio. È cura e ti dice cosa sei per l’altro o quanto conti.
Lo sguardo nell’arte
I pittori del Rinascimento lo sapevano bene e lo rappresentavano nei dipinti delle tante Madonne col bambino che si guardano ed erano capolavori ma pure storia di relazioni che dicevano (e dicono ancora) che «Se ti guardo con amorevolezza, tu sai che esisti nella mia mente». Altrimenti siamo distanti.
Perché se lo sguardo volge da un’altra parte o è distratto, poca è la cura che a volte diventa vera e propria trascuratezza, cioè una diffusa forma di maltrattamento. Se in un dialogo il bambino, l’adolescente ma anche l’adulto non si sente guardato, ha la sensazione di non esistere per l’altro. Siamo animali sociali che hanno bisogno sempre che il contatto sia visivo, diretto, partecipato.
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