«Cari genitori», le chiamiamo «Baby gang» ma sono solo bulli
Ogni mercoledì la rubrica «Cari genitori», curata da Giuseppe Pino Maiolo, propone pillole di riflessione educativa, che potranno partire da una notizia di attualità.
Continuiamo a chiamarle «Baby gang» anche se non lo sono. Insisto nel dire che si tratta di bulli e bulletti senza regole e senza limti. Le Baby gang di matrice sudamericana sono proprio tutta un’altra cosa.
Non vi è dubbio però che il fenomeno sia preoccupante, ma è quel bullismo diffuso a cui non riusciamo a mettere un contenimento, perché aumenta ovunque non solo a scuola ma anche in casa in casa o in famiglia per esempio tra fratelli e non lo vediamo perché ci siamo abituati o facciamo finta di non vederlo. Del resto la violenza verbale e quella fisica circola dappertutto nella relazioni sociali e familiari, nella vita reale e ancora di più online.
Quei ragazzini che aggrediscono i pari o gli adulti sulle passeggiate o accendo risse, picchiandosi tra di loro senza un motivo preciso, sono adolescenti abbandonati a se stessi che vivono un vuoto di autorità educativa.
Perché far parte di una Baby gang?
Le loro violenze sono da una parte un modo per essere accettati dal gruppo facendone parte, dall’altra, ma nel contempo anche una specie di gioco, per lo meno è quello che dicono, un divertimento che pensano di poter fare per avere visibilità in una società di grandi che non li vede se non quando ne combinano di grosse.
Questi sono minori che non provengono da realtà degradate ma adolescenti arrabbiati, abitati dentro da rabbie comuni e emozioni forti che nessun ha educato a gestire. Né in famiglia né a scuola si educa alla gestione delle emozioni e così sono senza strumenti di autocontrollo, non sanno dire quello che provano e tanto meno distinguere il bene dal male.
Senza nulla togliere alla responsabilità dei loro gesti che devono essere sanzionati, dico che dovremmo però smetterla come adulti di invocare le forze dell’ordine le pattuglie per risolvere queste situazioni, di certo gravi e pericolose, ma da affrontare con strumenti educativi che sono di competenza della famiglia, dei genitori, della scuola e non della polizia.
Tali richieste invece sono la conferma invece del totale fallimento della comunità educante.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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