«Nel silenzio delle nostre parole», quello che non sappiamo dire
Nel quartiere Kreuzberg di Berlino va a fuoco un grande palazzo in cui sono racchiuse le vite di tante persone che si sono sempre appena sfiorate in un conflitto esistenziale di oltraggioso ignorarsi, o d’amanti dispettosi tra i quali si consumano le discordie di tante incomprensioni. In «Nel silenzio delle nostre parole» (DeA Planeta, 282 pp., 18 euro) la scrittrice Simona Sparaco, - che con questo splendido romanzo ha vinto la prima edizione italiana del concorso DeA Planeta -, racconta quattro storie di persone che vorrebbero parlare di loro ma si trattengono: da Alice e Matthias a Bastien e Polina, fino a Hulya, sono tutti compresi nel loro silenzio dal quale divampano le fiamme di un corto circuito omicida. Il 3 giugno la scrittrice presenterà il libro nella Sala Libretti del nostro quotidiano dialogando con il vicedirettore Gabriele Colleoni.
Signora Sparaco, lei ha scritto otto romanzi, è stata finalista ai premi Strega e Bancarella, ma ha partecipato al DeA Planeta con uno pseudonimo coniato con il nome dei suoi due figli (Diego e Tommaso = Diego Tommasini): era attratta dal grosso premio in denaro (150mila euro) o si è trattato di una sfida con se stessa?
Una grande sfida. Intanto perché di solito si dà valore a quello che uno scrittore scrive in base anche al nome, e io volevo vedere quanto poteva essere forte il mio romanzo presentandomi come un’esordiente. L’idea di scegliere un nome maschile è stata un’ulteriore sfida perché si parla tanto di scrittura maschile e femminile, anche se io considero «Anna Karenina» uno dei libri più femminili della storia della letteratura, ma è stato scritto da un uomo.
Perché il titolo un pochino enigmatico?
Le parole sono rumore, ma non quelle che tratteniamo. Questo il perno attorno alla quale ruotano tutte le vicende che ho ideato nel romanzo. I miei protagonisti hanno a che fare con le parole che non sono riusciti a dire, ma nel momento in cui la vita mette di fronte alla possibilità della fine, bisogna trovare il coraggio di tirarle fuori. Non tutti i personaggi ci riescono, ma tutti si misurano con la possibilità di comunicare con la persona che hanno vicino. Solo Polina, che ha messo al mondo un bambino e lo sente piangere, non riesce a decifrare il pianto del suo piccolo, perché non tutte le madri hanno la fortuna di prendere in braccio un bambino e sentirlo subito proprio.
Dentro il palazzo in fiamme tante vite e tanti drammi: con questa coralità di voci che hanno il senso stesso della vita travagliata da tante difficoltà, voleva esprimere la più arcaica, ma anche la più nascosta e brutale faccia della realtà?
Volevo in qualche modo andare a mettere le mani sul grande potenziale che esiste in ogni persona che in qualche modo ci accompagna nella vita o che ci ha preceduto, per alterare quelle distanze che crediamo incolmabili quando si parla di genitori e figli. Come se chi ha vissuto il mondo molto prima di noi avesse abitato un altro universo e non potesse capire il nostro modo di guardarlo. Invece no: quella faccia di cui parlo nel libro è proprio il bisogno ancestrale che ci dovrebbe essere negli uomini per eliminare le distanze e trovare l’universalità di un sentimento e di un’emozione, quando vita e morte s’incontrano fin quasi a confondersi, scoprendo che tutti guardiamo il mondo allo stesso modo.
Perché ha ambientato la vicenda a Berlino, e non in Italia, o a Londra dove si è verificato veramente l’incendio?
Sono partita da un articolo di giornale; poi, di fatto, ho preso le distanze da quei fatti e della cronaca ho salvato solo la notizia che l’incendio scaturiva dal corto circuito di un frigorifero. Ho pensato di cambiare città per raccontare una multiculturalità indispensabile alla mia Babele: e questa non poteva essere Roma. Il vero sfondo per l’Europa che volevo raccontare - perché questo è un romanzo europeo - era Berlino, la città perfetta, emblematica per il tipo di rapporti che intrattiene. Ho messo insieme un palazzo che prende fuoco simile a quella torre di Babele attorno alla quale nacque il conflitto umano che portò gli uomini a non capirsi fra loro. Nel palazzo alcuni non parlano la stessa lingua, altri non si comprendono perché ci sono pregiudizi e l’incapacità di vedere l’altro. L’unica che guarda i personaggi per quello che sono davvero - perché nel cercare la loro identità sta cercando la sua - è Hulya, che guarda dal negozio di fronte al palazzo ed è l’unica che osserva il mondo per quello che è. Prendere una distanza di sicurezza dalle nostre debolezze, guardare la vita con distacco, è l’unico modo per guardarla con lucidità.
Per partecipare alla presentazione del volume è richiesta la prenotazione al numero 030.3790212 o all’indirizzo e-mail salalibretti@giornaledibrescia.it.
Ecco la registrazione integrale dell'incontro:
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