I modellini brit-pop del genio
n Qualcuno ha visto un indizio di qualcosa di gigante nella rapidissima pubblicazione di questo album, a un solo anno dal precedente «The Messenger», che aveva segnato l’esordio da solista «vero» di Johnny Marr. Lo si era azzardato calcolando il brevissimo lasso di tempo intercorso dalla release dell’ultimo lp di Morrissey. Fuor di metafora: i due si sarebbero allineati con i tempi per poi tornare liberi per una reunion degli Smiths. Impossibile, improbabile, difficile. Chissà... Fatto sta che ci troviamo tra le mani «Playland», l’album di uno dei più grandi chitarristi di sempre («Nemmeno Johnny Marr è bravo quanto Johnny Marr», cit. Noel Gallagher). Un genio. Punto.
La caratteristica di Marr solista è che è molto più «dritto» di quanto sia mai stato, anche nelle collaborazioni e nei progetti post-Smiths. E i suoi brani sono (solo?) buoni modelli brit-pop (ah, quanto deve a lui tutto l’immaginario e il suono di quegli anni...). Con punte in alto e momenti meno ispirati. Tra le prime senza dubbio mettiamo il singolo «Easy Money», fresco, pimpante e piacevolmente immediato. Ma anche l’energia aerodinamica di «Dynamo». I tappeti sintetici di «The Trap», che s’intrecciano con l’andamento quasi psych-pop della melodia. La profondità sonora di «This Tension». La voce di Marr suona bene, ma cantare non è la sua specialità (anche se quando Morrissey lo sentì in studio in alcune take ai tempi di «Strangeways Here We Come» rimase colpito dalla chiarezza del timbro). E nemmeno lo è la scrittura dei testi, piuttosto «standard». Infine, ma è quasi pleonastico, c’è la chitarra. Marr è un fuoriclasse, con la capacità di fare sempre la cosa giusta per ogni canzone.
Daniele Ardenghi
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