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Ecco perché gli americani ci hanno pagato a peso d'oro

Giuseppe Bellandi, fondatore della Gimatic venduta per 370 milioni, racconta come è andata in porto l'operazione
Fondatore e alla guida. Giuseppe Bellandi, fondatore di Gimatic, resta alla guida anche dopo il passaggio a Barnes
Fondatore e alla guida. Giuseppe Bellandi, fondatore di Gimatic, resta alla guida anche dopo il passaggio a Barnes
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Potrebbe serenamente starsene a fare un bel niente, a passare il tempo fra i mari del Sud e magari una capatina, qua e là, nelle più belle città del mondo. Potrebbe. Avrebbe potuto farlo anche anni fa. E non l’ha fatto. Non lo fa adesso dopo aver ulteriormente incrementato il tesoretto personale. Giuseppe Bellandi se ne sta, come sempre, nei suoi uffici della Gimatic a Roncadelle.

L’azienda, che lui aveva fondato nel 1985, è sempre stata ad un tempo defilata ed avanzata, in questo rispettando il profilo del fondatore. Qualche settimana fa, Gimatic è stata protagonista della più sorprendente operazione di vendita/acquisto degli ultimi anni. Ceduta al gruppo Usa Barnes per 370 milioni di euro. Sorprendente non è tanto la cessione (l’azienda già nel 2013 aveva ceduto il 70% del pacchetto di controllo al fondo milanese Xenon e tre anni più tardi i cinesi-tedeschi della Agic Capital ne rilevarono l’82%) quanto per l’importo in relazione ai volumi di Gimatic: 42 milioni di fatturato.

Certo, Gimatic ha un Ebitda del 44%, ma 370 milioni significa pagare l’azienda quasi 20 volte tanto. Un record. Giuseppe Bellandi, agli americani di Barnes ha ceduto anche l’ultimo 9% che aveva in portafoglio. Lui resta alla guida, come amministratore delegato.

Ma lei ha capito perché il gruppo Barnes vi ha pagato così tanto?
«Certo che sì. Perché siamo bravi, perché siamo avanzati, perché stiamo investendo in un settore che ha grandi prospettive. E perché già oggi abbiamo, come lei ha detto, un super margine operativo».

Ma Barnes arriva, vi compra, rileva esperienze e brevetti e poi lascia tutti a casa?
«Non sarà così. Ci sono stati casi, anche qui a Roncadelle, di grandi gruppi che hanno rilevato aziende importanti e poi - storia di questi giorni - vogliono pesantemente tagliare. Per noi non sarà così».

Ma queste sono le classiche assicurazioni che si danno per non allertare il mercato e i dipendenti...
«Penso proprio di no. Il gruppo Barnes, che è un gruppo attivo nella fornitura di sistemi tecnologici per aziende aerospaziali, automotive, imballaggio e molto altro, non è presente nella nostra nicchia di mercato. Ha deciso di entrarci e di rilevare la Gimatic che, pur piccola, è uno dei player mondiali nella nicchia di mercato delle "mani" per robot»

Mani per robot, ma ci sono grandissimi gruppi che fanno robot.
«Sì, ma non fanno le mani, le pinze che applicate ai bracci meccanici prendono quel che esce da una pressa, ad esempio. La Barnes ritiene che il settore dello stampaggio plastico sia un settore in crescita e quindi aveva necessità, per completare la gamma, di avere anche chi fa mani per robot. Noi quindi facciamo una cosa che la Barnes non faceva. Noi siamo una eccellenza e grazie a Barnes (che ha clienti in tutto il mondo) cresceremo. E cresceremo qui a Roncadelle e a Bagnolo Mella dove abbiamo la MTM».

Certo però che vendere... Non è un po’ una resa? L’aveva inventata la Gimatic, fatta crescere, faceva utili eccellenti perchè vendere?
«Ricapitolare tutta la storia è un po’ lunga. Io ho una figlia che si occupa di altro, ho sessant’anni, dovevo solo immaginare di mettere Gimatic in buone mani, darle prospettive solide e serie. Barnes mi pare un gruppo che risponde a questi criteri. Evidentemente anche la cifra che il fondo per gran parte ha incassato ha avuto il suo ruolo, diciamo così».

Ma come si fa ad inventare un’azienda che abbia risultati e potenzialità simili?
«Forse la dico un po’ grossa, ma credo che - al fondo al fondo - la storia sia questa: bisogna fare cose che il mercato non immagina. Tocca assumersi dei rischi, stare sulla frontiera dell’innovazione, investire e investire in ricerca e sviluppo. Faccio un esempio: noi oggi investiamo circa 4 milioni l’anno per fare ricerca sui cobot e sistemi 4.0.E badi bene che oggi questo settore vale solo il 2% del nostro fatturato».

Ma oggi potete permettervi questo perché avete alle spalle la storia che vi siete creati.
«Sì, certo. Ma la nostra storia anni fa si è mossa intuendo quel che stava accadendo. Abbiamo proposto ai grandi gruppi dell’auto, ma è solo un esempio, di sensorizzare e quindi controllare stampi e pinze. Ci sono centinaia di grandi gruppi che hanno decine, centinaia di stabilimenti in tutto il mondo. Chi li controllava, chi seguiva le migliaia e migliaia di stampi e robot? Noi abbiamo fatto un sistema che fa questo. E adesso andiamo avanti su altre frontiere».

Bisogna quindi sempre stare davanti, sul fronte dell’innovazione
«Io non credo di essere avanti.Penso che stiamo dove dobbiamo essere se vogliamo immaginare di avere un futuro».

E i piccoli? Le piccole e medie aziende stanno facendo fatica a capire quel che sta accadendo. Capiscono o intuiscono che devono cambiare, ma per dove e con chi e come diventa un rebus.
«Vero è che molti piccoli non stanno capendo. Dico però che non è vero che i piccoli non fanno innovazione. Al contrario: le piccole aziende sono spesso fabbriche di innovazione. E sa perché? Perché nelle piccole c’è l’imprenditore e quindi uno in grado di assumersi in proprio dei rischi. Nelle grandi ci sono i manager che spesso stanno alla larga dai rischi. Certo: i grandi hanno le risorse e spesso comprano le piccole, com’è stato per noi».

Che sensazione ha della reazione dei piccoli di fronte a quello che oggi chiamiamo 4.0?
«Non sono un guru. Dico che 4.0 è avere tutto sotto controllo in tempo reale. Il 4.0 è solo un modo più raffinato per controllare i processi. Nessuno ha inventato un nuovo processo: è solo un nuovo modo per controllarli i processi. Io penso che tutti dovremmo diventare 4.0. Certo: serve anche uno spirito di innovazione. Il 4.0 non è una coccarda...

Perché coccarda? Cosa intende?
«Sa, un modo per fare bella figura. Venti e passa anni fa quando arrivò la certificazione Iso 9001 ci fu chi la fece per la famosa coccarda e chi capì invece che la certificazione serviva soprattutto alle aziende, che faceva bene alle aziende perché faceva vedere il costo della non-qualità. E così è un po’ oggi col 4.0: controllare la gestione non è tempo perso. Se capiamo questo siamo a buon punto».

 

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