Superare l'imbarazzo con chitarì e barlafüs
L’evocazione - su questa rubrica - degli appellativi irriverenti dei quali la lingua dei nostri nonni è ricca ha aperto lo scrigno della memoria dei nostri lettori. E così - ad esempio - Lorenzo di Castelcovati ricorda: «Ogni tanto sentivo mio papà che diceva barlafüs e sono sicuro che non era un complimento».
Come spesso accade in dialetto, il termine barlafüs ha un significato primo (tecnico e «denotativo») e uno metaforico («connotativo» e capace di evocare con eleganza contesti altrimenti imbarazzanti). Letteralmente barlafüs è il piccolo peso che poteva esser applicato al fuso di un arcolaio per farlo girare meglio e con maggior regolarità. La parola quindi evoca due cose: anzitutto il fatto che si tratta di un oggettino da niente (quindi diventa sinonimo di cianfrusaglia, carabattola) e poi il fatto di pendere (proprio come nella storia della papessa Giovanna, dopo la quale - secondo la leggenda - ogni papa eletto doveva sedere sulla gestatoria perché un cardinale verificatore dichiarasse «Habet duos et bene pendentes»).
Quindi dare a uno del barlafüs significa dargli del «coglioncello» (sic).
Altri ricordi hanno poi evocato in Paolo gli appellativi chitarù e calisù: «Non posso non ricordare certi rimproveri di mia mamma, che mi criticava perché non frequentavo brave giovani, come le mie compagne di classe studiose, quanto piuttosto ragazze che per lei erano genericamente... öde come dei calisù». Quanto poi a chitarù, «questo era accrescitivo di chitàra e si rifaceva a persona non troppo saggia, ma c’era anche il chitarì che stava a indicare il fondoschiena. Che talvolta può strimpellare, anche se non proprio delle serenate». (risic).
@Buongiorno Brescia
La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato