Marchesi: «Torno a far l'albergatore»
Il pensiero è ormai totalmente rivolto al futuro, alla ristrutturazione di Castel Conturbia ad Agrate nel Novarese, che sarà entro la fine del 2014, albergo di charme (20 stanze, 13 suites, due piscine) e ristorante.
Il pensiero di Gualtiero Marchesi è già là: «Torno a far l’albergatore, così come avevo cominciato nell’albergo dei miei a Milano - dice - Torno ad una ospitalità completa ed ho voglia di gestire in prima persona tutto, con una sola testa non due, tre orientamenti diversi per la stessa struttura». E cogli in queste parole l’unico accenno indirettamente polemico per questi vent’anni franciacortini durante una chiacchierata di più di due ore all’Albereta, ancora «sua» per una decina di giorni.
Guarda al domani, agli impegni dell’Università di Colorno («sono soddisfatto, anche se al meglio non c’è fine, ma è necessario puntarci»), alla Fondazione che porta il suo nome, al «Marchesino». Rivolge lo sguardo avanti, ma non nasconde la fatica d’un trasloco che lo divide da un luogo dove ha vissuto due decenni.
«Vent’anni fa sono venuto in Franciacorta - racconta - con l’intento di andare in campagna, di staccare dalla città. Cercavo un luogo meno frenetico di Milano, dove le persone potessero gustare la mia cucina. E nei primi anni mi sono lasciato influenzare dalla campagna che avevo intorno, dal terroir di qui. Un mutamento non solo in cucina; pensi che a Milano avevo una scultura d’un grande artista contemporaneo su ogni tavolo e quando venni qui le tolsi per mettere dei vasi…».
Una stagione che però non è durata molto.
«Sì, mi sono accorto rapidamente che la mia era e resta una cucina della città: è una cucina profondamente cittadina che guarda all’arte. Da allora ho rimesso le sculture sui tavoli ed ho creato piatti per una cucina autenticamente italiana, non di un singolo territorio».
Ed è questa la definizione della sua cucina oggi?
«Sì, con una fondamentale precisazione: la materia prima è tutto. Sto leggendo in questi giorni l’ultimo libro di Carlin Petrini e vedo che la pensa esattamente come me. La cucina è profondamente legata alla materia prima e purtroppo vedo in giro tanti pasticcioni che sovrappongono alla materia prima salse e condimenti d’ogni genere. E credo che queste elaborazioni che coprono e nascondono la materia traducano semplicemente l’incapacità di riconoscere il prodotto di qualità e di trattarlo al meglio per valorizzarne il sapore originale, per evidenziarne le peculiarità. Per far questo ci vuole però cultura specifica, conoscenza ad esempio delle caratteristiche delle diverse parti della carne di un animale, delle tecniche di cottura più adatte per ogni singolo taglio. C’è tanta improvvisazione ignorante oggi nelle cucine, mentre io penso, con Bela Bartok, che l’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia. Se uno conosce bene la materia, la sceglie di qualità, la cuoce nella maniera più semplice e la propone così senza pasticciarla inutilmente. Ripeto: vedo troppi pasticci nel piatto e generalmente si cuoce troppo arrivando a violentare in maniera indecente carne e pesce».
Cotture misurate, valorizzazione del sapore originale: era questo il credo della nouvelle cuisine alla quale lei è sempre stato avvicinato .
«Almeno all’inizio sì quelli erano i canoni, lo ricordo perfettamente negli anni che ho passato da Troisgros. Ma poi anche loro si sono persi per strada. E non è un caso se io fin dall’inizio a Milano non ho parlato di "nouvelle cuisine", bensì di "cucina totale", un manifesto per la semplicità nel piatto al quale mi attengo ancora oggi. Di più: mentre i francesi avevano annullato il ruolo del servizio in sala facendo uscire il piatto già porzionato e finito dalla cucina, io ho sempre valorizzato il ruolo della sala anche per coinvolgere di più l’ospite, per farlo partecipare al momento in cui si trancia una carne, si serve un pesce, si arricchisce con la giusta quantità di salsa la materia prima preparata».
È davvero tanto malmessa la cucina dello Stivale?
«Io non giudico, ma ho l’impressione che la cucina moderna si sia allontanata troppo dalla verità del piatto. Per la mostra che ho allestito a Milano qualche anno fa e che ripercorreva la mia attività ho scritto: "la cucina della verità, ovvero della forma, quindi della materia" e non penso si debba aggiungere altro. Ripeto: non giudico, ma constato. Anche per questa ragione sento il dovere di insegnare, di far capire ai più giovani cos’è la vera cucina, quanto studio, quanto sapere, quanta cultura stratificata nei secoli c’è in cucina e merita d’essere conosciuta. Nasce da qui il mio lavoro in Alma e nella Fondazione, gli incontri che faccio dovunque mi chiamano. È un impegno che sento come un dovere».
La prima lezione è dunque la conoscenza della materia, il rispetto massimo: e poi?
«Io credo che una nuova generazione di cuochi dovrebbe oggi sentirsi impegnata nella ripresa e nella riproposizione del grande patrimonio della cucina regionale italiana. Non una ripresa ed una riproposizione statica, ma la sua attualizzazione, la rilettura alleggerita delle ricette della tradizione dal momento che oggi nessuno ha più bisogno della quantità di calorie che il piatto tradizionale doveva assicurare. Invece continuo a vedere che chi propone cucina tradizionale lo fa lasciano intatte le quantità grasse, anzi talvolta persino aggiungendole. Poche sere fa sono stato con un amico in una trattoria emiliana ed ho mangiato degli ottimi ravioli di zucca che però letteralmente nuotavano nel burro: incomprensibile».
Eppure il canone di leggerezza e semplicità sembra andar per la maggiore?
«A me non pare. Vedo a questo proposito più attente in cucina e non solo a tavola le donne: le donne lavorano con amore, vanno dritte al sapore originario; sono i maschietti che invece spesso si alambiccano il cervello e finiscono per strafare. Dia retta a me: la lezione della leggerezza e della semplicità deve ancora fare molta strada nelle nostre cucine».
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