Politica

Gorlani: «L'autonomia non sia una fuga in avanti solo di alcune regioni»

Per il docente di Diritto costituzionale e pubblico all’Università statale di Brescia «con queste incertezze la riforma è destinata ad aumentare i malfunzionamenti più che a ridurli»
L'avvocato Gorlani, docente di Diritto costituzionale e pubblico all'Università di Brescia
L'avvocato Gorlani, docente di Diritto costituzionale e pubblico all'Università di Brescia
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Si definisce «da sempre un grande sostenitore del Titolo V e della valorizzazione dell’autonomia regionale», percorso rimasto in questi anni a mezz’aria, incompiuto. (Anche) per questo il suo sguardo da costituzionalista è significativo per capire a che punto siamo e, soprattutto, quali sono i punti deboli, quelli di forza e i risvolti tanto della riforma quanto del referendum che la vuole abolire.

A parlarne è l’avvocato Mario Gorlani, docente di Diritto Costituzionale e pubblico all’Università statale di Brescia, che la spiega così: «Questa Autonomia differenziata doveva essere un po’ la ciliegina sulla torta, ossia il completamento e il perfezionamento di quel disegno che in questi ultimi anni sta avendo un certo arretramento».

Cosa non funziona?

«L’autonomia doveva essere un premio per quelle Regioni che, in un contesto di crescita armoniosa di tutti gli enti territoriali, erano in grado, per ragioni politiche e organizzative, di gestire meglio ulteriori funzioni, senza mettere in discussione gli equilibri complessivi. Con queste incertezze e malfunzionamenti del quadro regionale la riforma è destinata ad aumentare i malfunzionamenti più che a ridurli. Ecco perché rischia di diventare una fuga in avanti di alcune Regioni, destinata ad alterare ulteriormente gli equilibri attraverso quello che gli statunitensi chiamano “federalismo competitivo”. C’è da chiedere ai cittadini se avvertono il bisogno di più competenze alla Regione, o se invece auspicano un’Amministrazione più razionale, con competenze meglio distribuite».

Propone un tagliando al Titolo V?

«Stiamo andando sempre più verso una uniformizzazione delle norme addirittura a livello europeo. Avrebbe più senso ridurre l’autonomia legislativa e valorizzare l’autonomia amministrativa, aggiungendo alle Regioni meglio organizzate qualche funzione in più. In questo modo, invece, soprattutto legandola alla questione finanziaria, si spinge su una maggiore autonomia legislativa indiscriminata su tutte le materie possibili, stravolgendo così anche l’idea originaria di questa norma. Quella stagione autonomistica partita negli anni ’90 va rivista: le grandi aspettative che aveva suscitato il Titolo V sono andate in buona parte deluse. L’attualità del valore dell’autonomia non è però in discussione».

Ha parlato di malfunzionamenti delle Regioni: a cosa si riferisce nello specifico?

«L’esperienza della sanità è emblematica: ci dice che i modelli regionali non hanno funzionato. Quella che doveva essere la principale competenza per dimostrare la bontà del disegno autonomistico, sta evidenziando tutti i suoi limiti».

Quindi qual è la via: riaccentrare tutto a livello statale? Sarebbe sostenibile?

«No. Negli anni Settanta si è iniziato a spingere molto sull’idea che decentrando si migliorasse la macchina amministrativa. Oggi il bilancio è che quell’idea è fallita e che c’è bisogno di ripensare daccapo una macchina amministrativa farraginosa, lenta, iperburocratizzata e distribuita su troppi livelli territoriali. Parlare oggi di Autonomia senza a monte interrogarsi su come riorganizzare le amministrazioni è, a mio avviso, una rivendicazione politica».

Quale la sua valutazione sul ddl?

«Ciò che fa la differenza è il modo in cui il modello verrà attuato, quali le materie e le funzioni effettivamente trasferite, quali le risorse redistribuite sul territorio. La legge Calderoli non dà ancora risposta a queste domande, ma definisce un modello procedurale che rimanda ad adempimenti successivi - la definizione dei Lep, il contenuto concreto delle intese - che saranno quelli davvero decisivi per giudicare. Vero però che, una volta portata a regime la legge, è probabile che si vada celermente verso un acritico recepimento delle richieste più spinte sul versante dell’autonomia, con non pochi rischi di funzionalità e di iniquità del modello. Manca poi una seria riflessione sul futuro ruolo che avranno gli enti locali nella gestione delle nuove funzioni trasferite. Già oggi in difficoltà per insufficienza strutturale, di risorse e per una dimensione troppo piccola, molti enti locali rischiano di essere travolti da altre funzioni che sarà impossibile riescano davvero a gestire».

E sul fronte economico?

«L’inattuazione del nuovo Titolo V è ancora più evidente. L’autonomia finanziaria di entrata e di spese delle Regioni rimane un obiettivo lontano, senza il quale però anche i progetti di autonomia differenziata risultano velleitari o rischiano di accentuare ancora i divari territoriali».

Perché i Livelli essenziali di prestazioni sono fondamentali e cosa succederebbe se non si riuscissero a finanziare?

«I Lep sono il principale strumento di garanzia dell’eguaglianza di tutti i cittadini nell’accesso ai diritti sociali fondamentali. L’autonomia tenderà inesorabilmente ad accentuare una diversità di performance dei sistemi di welfare nelle diverse Regioni. La previsione di Lep, che siano sostanziali nel garantire una tutela adeguata delle aspettative di tutti i cittadini, diventa così il presidio per mantenere una certa omogeneità sul territorio nazionale. Sono in gioco il principio di uguaglianza e di solidarietà, ma anche quello di unitarietà e indivisibilità dell’ordinamento. L’impossibilità di finanziare i Lep porrebbe problemi di funzionalità dell’impianto delle intese, perché questo dovrebbe bloccare il trasferimento delle relative funzioni anche alle Regioni che hanno stipulato le intese per l’autonomia differenziata».

Se la Consulta darà il via al referendum abrogativo e vincesse il sì, cosa accadrebbe?

«Verrebbe abrogata la legge, con la necessità di avviare nuovamente l’iter per l’approvazione di una diversa legge analoga. Non sarebbe la fine di questo percorso, ma certo si determinerebbe un grande rallentamento e un rinvio probabilmente sine die del suo esito».

Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le Autonomie - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le Autonomie - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

Il ministro Calderoli ritiene improbabile che si svolga il referendum. Ha ragione?

«Depositate le firme e vagliata la regolarità dalla Cassazione, c’è la Corte Costituzionale ed effettivamente qualche riserva sul fatto che possa dichiararne l’ammissibilità c’è. In primis perché è una legge attuativa dell’art. 116 del terzo comma e abrogarla rischierebbe di paralizzare la norma. Poi ha delle ricadute finanziarie e tributarie, dunque c’è il tema del divieto di referendum in materia. Infine potrebbe esserci il fattore della pluralità del quesito».

Qual è il suo pronostico?

«Dubbi che la Corte possa dire di sì a procedere con il referendum io ne ho molti: la Consulta si trova nella scomodissima posizione di doversi pronunciare con delle conseguenze politiche enormi. Se dice di sì potrebbe determinare una paralisi con conseguenze istituzionali anche sulla tenuta del governo. Se dice di no, favorisce un percorso. Il mio pronostico è più un no motivato dopo un’accesa discussione».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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