Mille Miglia in bici tra i ghiacci d'Alaska: l'impresa dei tre bresciani all'Iditarod
Ci sono tre bresciani in bicicletta tra i ghiacci dell’Alaska che hanno compiuto un’impresa. Oggi hanno tagliato un traguardo davvero per pochi: quello dell’Iditarod Trail Invitational (ITI), incredibile sfida attraverso il deserto bianco con vista sul Mar Artico.
Lassù dal 26 febbraio scorso sono stati unici rappresentanti dell'Italia, al punto da cavarne un gioco di parole fra l’acronimo della gara estrema - ITI - e la nazionalità: gli ITI-Alians. Unici del nostro Paese a sfidare sulle due ruote il freddo e le nevi pressoché eterne.
Tutta tempra di marca bresciana quella che ha spinto sui pedali e macinato chilometri dove anche solo marciare potrebbe sembrare un atto estremo. Ma non per loro: i clarensi Willy e Tiziano Mulonia e il flerese Roberto Gazzoli si sono lasciati alle spalle 21 giorni di fatica e meraviglia e 1600 km attraverso i gelidi paesaggi dell'estremo nord americano.
Un'impresa, quella dell'Iditarod Invitational Trail che è l’ennesima per i tre, che vantano di tutto un po’: tra l’uno e l’altro hanno collezionato spedizioni in Tibet, Tour Divide, l’attraversamento del continente americano da cima a fondo, sfide a lande desertiche e a quote da alpinismo estremo.
I precedenti
L'ennesima anche in Alaska visto che le loro ruote grasse non hanno solcando quei ghiacci per la prima volta. Anzi. Casomai, Willy Mulonia - 55 anni, 6 più del fratello Tiziano, 8 più di Gazzoli, e nei polpacci le edizioni 1999, 2000, 2018 e 2022 - ha annunciato che per lui sarà l'ultima.
Motivo in più per affrontare quelle 1.000 miglia che separavano Knik Lake da Nome dando fondo a tutta la passione e l'energia che da sempre animano i tre ultracyclist. Che per l'occasione hanno coniato anche un nuovo refrain: se nel 2022, brescianamente, si incitavano al grido di «nom-a-Nome», questa volta lo hanno fatto scandendo «turnom-a-Nome».
-20°C e l'acqua
Goliardica la trovata, certa la carica nostrana che il refrain imprime alla sfida. Ma la fatica dev’essere stata qualcosa di massacrante, per le distanze, per i dislivelli (oltre 6.000 metri positivi) per il manto innevato, di suo non proprio ideale per la bici, e per il freddo. Poco meno che polare, con giornate intere vissute a - 20°C, temperature alle quali molti neppure uscirebbero di casa, figurarsi avventurarsi nel nulla bianco per ore di pedalate infinite, consapevoli di non avere ripari per sostare per centinaia di chilometri. Lo raccontano - oltre il diario affidato alla rivista di ciclismo AlVento - anche i post sui social che per tre settimane hanno dato conto di stati d'animo, emozioni e andamento di ogni singola tappa.
Pedalando sullo Yukon
Le più sfibranti sono state forse le due che li hanno portati da Grayling a Kaltag, attraverso 220 km con una sola possibilità di sosta a Eagle Island, sede di un check point di gara.
Una distanza pedalata per larga parte sulle acque del fiume Yukon. No, non avete letto male: perché la South Route - vale a dire il tracciato più meridionale e impegnativo tra quelli un tempo battuti solo da slitte e mute di cani fra le due città dell'Alaska - si dipana per oltre 65 miglia sulla superficie ghiacciata del leggendario corso d'acqua narrato da Jack London.Quanto basta per farla definire dallo stesso Willy Mulonia «la più wild ed immensamente più bella». E giusto per non mancare di precisione, è bene ricordare che quella dolce dello Yukon non è la sola acqua incontrata dai massicci copertoni oversize dei tre bresciani e dei loro compagni di avventura: c’è anche l’acqua marina, pure ghiacciata per ampi tratti, del Mare di Bering.
Sfida nella sfida
E se lo dice Willy Mulonia che si tratta del percorso più estremo e magico, c’è da credergli, visto che li ha provati tutti sulle 350 e sulle 1000 miglia. Una sfida immensa. Un’immersione totale in una natura ostile e formidabile, magnifica e commovente. Almeno a giudicare dal racconto che ne restituiscono i tre intrepidi bresciani. Ricchi di dettagli sono i post di Gazzoli – altro habitué dei ghiacci artici – che ha fatto tesoro dell’esperienza di ripetute edizioni, dosando le forze, mentali e fisiche, al punto da mantenere una performance di gran lunga superiore a quella di 15 anni fa (risale al 2008 la sua prima Iditarod). Ma senza mai smettere di godere della meraviglia di un viaggio compiuto, per usare le sue parole «immersi in un paesaggio naturale di abbagliante bellezza», non avaro di spettacoli quali le aurore boreali.
Il «blowhole»
Dopo pioggia e rigore della temperatura, a complicare la fase conclusiva dell’impresa dei tre bresciani ci si è messo anche il vento: quello che soffia fino a 40 km/h dallo stretto di Bering in un fenomeno chiamato «sfiatatoio» («blowhole»). Una scocciatura in un contesto climatico come il nostro. Una complicazione che può portare anche ad epiloghi fatali quando la temperatura è sotto lo zero di molti gradi.
Tra le tappe che hanno di certo regalato un brivido, quella ad Unalakleet. Due baracche di legno e la garanzia di una pizza – a quanto pare molto gustosa e ambita dai concorrenti – in una località che i tre bresciani conoscono bene: nel 2020, infatti, facevano parte del manipolo di atleti passati alle cronache come gli «Unalakleet Eight», gli otto che furono fermati da una bufera di neve e da un’altra che si stava per abbattere con inusitata violenza sull’intero pianeta: la pandemia che impose la sospensione della gara. Poi ripetuta nel 2022. E ora di nuovo, sotto un cielo sconfinato che nelle foto si mostra tanto bello da sembrare finto. Non per i tre del «Turnom-a-Nome». Che a Nome ci sono tornati per davvero.
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