L’occasione mancata della politica italiana

Per un giorno Roma è stata davvero caput mundi. Il globo intero collegato in mondovisione. Presenti a rendere omaggio a Francesco in un numero impressionante (160) delegazioni governative al massimo livello. E qui si è avuto il primo miracolo politico di Franciscus. Chi altro sarebbe riuscito a riunire, addirittura a far colloquiare in un inedito, sorprendente spirito unitario, i premier di tutto un Occidente presentatosi a fila sparse, se non nemiche?
Era, poteva essere, una grande occasione per l’Italia di guadagnare in credibilità, prestigio, ruolo nel consenso internazionale. Invece, come al solito, le nostre forze politiche sono rimaste a guardarsi in cagnesco. Più preoccupate di curare i loro conti di bottega che ad alzare lo sguardo oltre confine, dove si gioca davvero il futuro del Paese. Restiamo una nazione che fatica a divenire normale: una democrazia funzionante in cui i ruoli di governo e di opposizione restano sì ben distinti, ma anche doverosamente rispettosi delle responsabilità istituzionali che toccano a maggioranza e minoranza.
Alla prima spetta il diritto/dovere di governare, alla seconda di controllare l’operato dell’esecutivo e, non meno, di definire le proprie ricette alternative. È un compito, quest’ultimo, non meno importante del primo. Senza una proposta di governo alternativa, una democrazia soffre. Il partito dominante – lo diceva Andreotti che in fatto di potere la sapeva lunga – finisce per essere «condannato a governare» e la sua inamovibilità porta facilmente allo scivolamento della democrazia in un regime.

È un vizio, oseremmo dire congenito, delle nostre forze politiche quello di farsi collettrici di ogni protesta antigovernativa quando sono all’opposizione, salvo liberarsene appena giunte al governo, per tornare a speculare sul malcontento popolare una volta finite di nuovo in minoranza. Finché c’è stata la guerra fredda, le opposizioni di destra e di sinistra potevano non curarsi dell’insostenibilità delle loro ricette, ben sapendo che al governo non ci sarebbero andate mai. Purtroppo, anche da quando s’è instaurata questa nostra versione spuria di democrazia dell’alternanza, non s’è perso il «mal d’opposizione», facendo conto che a spararle grosse si è sicuri di racimolare voti.
Meloni non s’è fatta problemi, quand’era in minoranza, a invocare il blocco navale contro gli immigrati clandestini, salvo dimenticarsene una volta giunta a Palazzo Chigi. Conte da premier ha baciato la pantofola alla Merkel, a Trump, a Xi Jinping e fa ora la voce grossa contro la von der Leyen e la Ue da cui ha elemosinato i 200 miliardi del Recovery Fund. La Schlein grida allo scandalo di Giorgia alla corte del tycoon e non si preoccupa di come potrà gestire i rapporti con l’America quando le dovesse toccare in sorte di sostituirla alla guida del paese.
Von der Leyen, #Conte:
— Adina 🧠 (@Tipicafreudiana) July 19, 2024
"Sono molto preoccupato perché è la prima volta che un premier italiano non è riesce ad essere parte dell'accordo politico della Commissione Europea. Meloni è rimasta emarginata con la sua forza politica. Questo non è un bene per l'italia". pic.twitter.com/5SdKv7qAd1
Eppure, dovrebbe sapere che la sua credibilità come forza di governo si rafforzerebbe se conducesse la sua battaglia non in modo preconcetto, ma distinguendo il grano dal loglio. Non le mancherebbero gli argomenti. Cominciando proprio dalla politica estera.
Sui dazi americani – è vero – possiamo fare poco (e la Meloni quel poco pare provi a farlo), ma molto potremmo fare e non facciamo. Perché l’opposizione non incalza la destra sui dazi che ci siamo messi da soli, che azzoppano la nostra esportazione: scarsa produttività, carente innovazione, complessità e farraginosità della normativa, vincoli alla concorrenza, inefficienza del sistema giudiziario, e chi più ne ha più ne metta? Il Pil italiano ne guadagnerebbe (la stima è di Draghi, che di conto sa fare) di 4/5 volte il danno del protezionismo impostoci da Trump. Da una battaglia sugli auto-dazi ne guadagnerebbe il paese e ne guadagnerebbero in credibilità sia il governo che l’opposizione.
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