Missione impossibile per il centrosinistra
Si continua a discutere del futuro del centrosinistra. Mentre Meloni ha dettato la linea del centrodestra dal palco di Atreju, attaccando protagonisti e ispiratori del futuro «campo largo». In questi giorni si ipotizza la creazione di un soggetto politico centrista (si parla di Ruffini come leader, ma forse potrebbe farlo anche il sindaco di Milano Sala) «benedetto» dal Pd e che svolga sostanzialmente il ruolo che fu dei Popolari per Prodi nel 1996: il centro che fornisce linfa moderata al centrosinistra e cattura quei voti di mezzo che possono far vincere le prossime elezioni politiche.
Il problema è che Conte non è Bertinotti e, soprattutto, che la legge elettorale non è il «Mattarellum» con le «desistenze» nei collegi uninominali. A sinistra c’è Avs che era già con Letta nell’alleanza del 2022: ora, con la Schlein, verdi e sinistra sono ancor più a loro agio, mentre il legame con la Cgil di Landini e il «campo largo» sembra forte. Poi, come dicevamo, ci sono i «progressisti» di Conte, che però non sono tanto entusiasti dello ius culturae, ogni tanto si smarcano per votare col centrodestra (sul Cda Rai) e soprattutto hanno dell’Europa una visione del tutto antitetica rispetto a quella di Pd e centristi.
Bertinotti sapeva trattare e ottenere concessioni; l’unica volta che ci fu uno strappo vero, ai tempi della crisi del primo governo Prodi, il partito gli si spaccò (ma il Professore fu sfiduciato lo stesso, di stretta misura). Conte, invece, gioca col Pd e col «campo largo» un po’ come il gatto con il topo: sa che i suoi voti possono essere determinanti per le politiche (alle Amministrative sono pochi e se ne può fare anche a meno), perciò fa capire che la nuova grande alleanza si farà solo alle condizioni programmatiche imposte dal M5s che non sarà un «cespuglietto del Pd» (nel frattempo dice che il M5s è pronto a «sporcarsi le mani», lasciando intendere che si può trattare: un capolavoro di equilibrismo). Sta di fatto che una coalizione imperniata sull’uso massiccio della spesa pubblica non può piacere ai centristi e nemmeno a un pezzo importante del Pd; quindi, l’unica intesa può essere trovata su un programma lungo ma generico che serva a far capire che tutti hanno imposto la propria opinione (un omnibus, insomma, per prendere a bordo elettori di centro senza perdere quelli di sinistra, sempre che i pentastellati siano davvero - nei fatti - di sinistra).
La stessa ricerca del federatore centrista e la costruzione in laboratorio di un polo moderato da contrapporre a Avs-M5s sembra più un esercizio di stile che un’iniziativa capace di dare risultati concreti. Per ora, gli unici successi di coalizione arrivano perché il Pd si rafforza elettoralmente e i minori sono sempre più piccoli e irrilevanti (tranne Avs, che intercetta i delusi del M5s). I due centrosinistra di Prodi (1996, 2006) avevano un leader non amato ma forte e prestigioso (con l’insidia di D’Alema che cercava di far prevalere i partiti sul premier), una sola forza un po’ riottosa (Rifondazione) e il controllo della maggioranza dei consigli regionali del Paese.
Oggi non è così: un «Papa straniero» non avrebbe potere; la Schlein finirebbe nella trappola di Conte e dei centristi, tirata da entrambe le parti; le forze riottose sono almeno due (il M5s che non vuole l’ex terzo polo di Calenda e Renzi e viceversa); sul territorio, c’è qualche rondine delle Regionali 2024 che non può fare ancora primavera.
In teoria, come ipotesi solo di scuola, l’unica via d’uscita sarebbe scaricare i pentastellati per imbarcare Forza Italia, in una sorta di «coalizione Draghi» (così si toglierebbero anche voti preziosi al centrodestra). Ma la paradossale maggiore omogeneità si pagherebbe con la perdita di molti consensi «di confine» e la sconfessione della linea Schlein. Quella maggioranza potrebbe nascere dopo il voto, in caso di emergenza, non prima. Quindi, si torna al punto di partenza: il centrosinistra avrebbe (da Conte a Calenda) i numeri per giocarsela alla pari col centrodestra, ma non può, non ce la fa, è prigioniero di troppi lacci e lacciuoli, di veti insuperabili e in parte anche strumentali. Ecco perché la Meloni - salvo sconquassi, che in politica non si possono mai escludere - si prepara a vincere anche le elezioni politiche del 2027.
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