La «dissing race» tra Ceccon e Pellegrini

«Il contrario di parlare non è ascoltare. Il contrario di parlare è aspettare». (Fran Lebowit) Una frase lapidaria che ben si adatta alla querelle di questi giorni che ha reso turbolente le acque del nuoto italiano costringendo due note medaglie olimpiche a cimentarsi sul ring di una nuova, gettonatissima, disciplina che battezzerei: «Dissing race».
I protagonisti del casus belli sono, da una parte Thomas Ceccon, classe 2001, vicentino, atleta olimpico con un palmarès da urlo, plurimedagliato anche con l’oro a Parigi, non nuovo a dichiarazioni schiette, immortalato a dormire su un asciugamano sul prato del parco del Villaggio Olimpico a Parigi e, dall’altra, l’ex collega Federica Pellegrini, classe 1988, soprannominata «La Divina», considerata la più grande nuotatrice italiana della storia.
La miccia? La lunga intervista che Ceccon ha rilasciato ai giornalisti Aldo Cazzullo e Arianna Ravelli sulle pagine del Corriere della Sera. Fra le tante domande gli viene posta la seguente: «A Verona Lei si è allenato nella piscina di Federica Pellegrini. Cosa rappresenta per Lei?» Ceccon risponde: «Niente». Ed «apriti cielo». Aldo Cazzullo manifestando, palesemente, il suo disappunto non lascia cadere la cosa ed incalza immediatamente in tono quasi accusatorio: «Come niente?» inducendo l’intervistato a sentirsi in dovere di trasformare quel semplice, legittimo, definitivo, ora scandaloso «nulla» in «qualcosa». Un qualcosa che plachi l’ansia dell’incredulo intervistatore.
Ceccon, fa, quindi, una cosa straordinaria (perché a molti risulta difficile, quasi impossibile farlo): mette perfettamente a fuoco i suoi sentimenti ed i suoi bisogni e cerca, con parole nuove, di articolare quel «niente» in modo che possa essere chiaro il suo sentire ed il suo pensiero. «Non è mai venuta a dirmi una parola. Si fa i fatti suoi ed io mi faccio i fatti miei. L’ho vista allenarsi tantissimo. L’ho ammirata come sportiva. Per il resto, sinceramente, no».
Ecco che in quel «niente» era contenuto un mondo di emozioni, quello che sta alla base di ogni conflitto e che quel «non rappresenta niente per me» risulta ora chiaramente riferito alla persona e non all’atleta Federica Pellegrini. Evidentemente per questo ragazzo di 23 anni contavano e contano di più l’umanità ed il rispetto dei colleghi che non le loro capacità atletiche. E dentro a quel «Non è mai venuta a dirmi una parola. Si fa i fatti suoi» noi, che di comunicazione ci occupiamo, abbiamo avuto l’ennesima, stupenda, conferma che all’apice dei bisogni umani (come ben ci ha insegnato Maslow, con la sua ormai famosa piramide), c’è un’unica cosa: il desiderio di essere riconosciuti, visti, ascoltati.
Ceccon l’avrebbe apprezzato nei tanti momenti passati in piscina con lei o nelle gare olimpiche che li vedevano pur sempre e comunque affiancati come colleghi. Un desiderio che accomuna la maggior parte di noi ed anche la stessa «Divina» Pellegrini che di fronte a questo «affondo», replicando con un lapidario «incommentabile», dimostra di provare la stessa identica necessità di essere riconosciuta nella Sua grandezza di atleta e nel ruolo che sente di incarnare. La sua divinità improvvisamente incrinata mostra al pubblico una donna diversa dall’immagine che si è costruita. Reagisce con un «incommentabile» che, lungi dal non dire nulla, commenta benissimo la sua sofferenza, la sua disapprovazione ed il suo disappunto, allontanandola da qualsiasi forma di empatia che la avvicinerebbe, umanamente, al collega e la porterebbe a cercare di riconoscere quello che il giovane ha provato ed ha onestamente e coraggiosamente espresso.
A suggellare questo fallito rispecchiamento empatico arriva poi il coniuge di Pellegrini che, per mostrare la sua lealtà coniugale, dice la sua su Instragram attraverso un incredibile paradosso. «Il rispetto è il valore fondamentale alla base dello sport e della vita. Se non ce l’hai, puoi anche aver vinto le Olimpiadi, ma per me vali zero. Questo è tutto quello che ho da dire sull’argomento». Una frase che esprime un concetto perfettamente simmetrico a quello di Ceccon. Una frase che con quel «per me vali zero» replica il «niente» di Ceccon. Una vicenda, insomma, così emblematica ed illuminante per questa rubrica alla quale non si poteva restare indifferenti, ponendola come fulgido esempio dei meccanismi sottostanti alla comunicazione e, soprattutto, alla meccanica del conflitto.
Appare chiaro quindi come la parola, pronunciata e scagliata, come una freccia, fuori da un rumoroso silenzio interiore, attraverso un «niente» che è invece un «tutto», cade irrimediabilmente stabile ed inamovibile sul palcoscenico della Vita dei protagonisti.
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