Il futuro politico di Gaza fuori dai radar diplomatici

La mattina del 7 ottobre 2023, quando Mohammad Deif, il comandante delle Brigate Ezzedin al-Qassam, l’uomo più ricercato di Israele, diede il via all’«Operazione Alluvione Al-Aqsa», si prefiggeva di raggiungere almeno tre obiettivi: uno di carattere militare, uno ideologico e uno politico. Sul piano militare, Hamas mirava a provocare un effetto domino, trascinando nel conflitto la Cisgiordania a est e Hezbollah a nord. Ciò avrebbe costretto l’esercito israeliano a impegnarsi contemporaneamente su più scenari, riducendo così l’intensità dell’inevitabile offensiva israeliana.
Dal punto di vista ideologico mirava invece a destrutturare l’idea sulla quale nel 1948 Israele era stato fondato: impedire il verificarsi di un nuovo Olocausto e dare certezza ad ogni ebreo della diaspora che lì, nel nuovo Stato, si sarebbe sentito protetto, al riparo da persecuzioni o sentimenti antisemiti. Attaccando in profondità i kibbutzim e sequestrando 250 persone, Hamas intendeva dimostrare agli israeliani che il governo non era capace di mantenere quel patto.
Ma era soprattutto l’obiettivo politico, il più importante per Hamas, ad aver mosso l’attacco: riportare al centro delle agende internazionali la questione palestinese e la necessità di fondare uno Stato sovrano e indipendente.
Un tema surclassato nell’ultimo lustro da diverse crisi globali che si sono susseguite e sovrapposte. Dal conflitto per il Nagorno-Karabakh alla caduta di Kabul e alle proteste iraniane; dalla pandemia sino alla guerra ucraina, queste crisi avevano «semplicemente» alienato l’attenzione sulla Palestina e il suo popolo. Ma nell’ottica del Gruppo, un attentato così terribile, sanguinoso e improvviso, avrebbe riacceso l’interesse, proprio come si era verificato con il massacro di Monaco del 1972 e così come effettivamente è stato. Almeno fino a qualche mese fa. A oggi possiamo affermare che i tre scopi che Hamas si era dato sono falliti.
I miliziani in Cisgiordania agli ordini dell’Autorità Palestinese non sono insorti, mentre Hezbollah dopo i primi attacchi ha subìto un drastico ridimensionamento della capacità offensiva. Il caparbio obiettivo di Netanyahu di liberare gli ostaggi vuole essere principalmente un riscatto ideologico, per infondere rinnovata sicurezza e vendetta al suo popolo. E poi, nuove crisi hanno iniziato a prendere il sopravvento. La guerra economico-commerciale dei dazi ha relegato sullo sfondo il fronte ucraino e lasciato irrisolti e dimenticati i nodi di Gaza.
Problemi talmente gravosi da esigere attenzione e pianificazione concertata sul lungo periodo da parte della comunità internazionale, che tuttavia appare sempre più assente. Tra le molteplici urgenze la prima riguarda la popolazione civile, stremata da una guerra che di fatto non si placa. Ciò nell’ottica di provvedere a una ridefinizione della Striscia, oggi divisa in diversi tronconi sotto il controllo delle forze armate israeliane, prefigurando il controllo totale del territorio, rioccupandolo e istituendo un’amministrazione militare per i prossimi anni, in attesa di una soluzione politica, che si sa, in Medio Oriente, è ardua.
La città di Rafah sarà presto trasformata in una zona cuscinetto, svuotata della sua popolazione, un’enclave nel territorio controllato da Israele, senza più collegamenti con il confine egiziano. Una mossa che Netanyahu ha definito strategica per impedire che Hamas possa approvvigionarsi di armi dall’estero, ma che in realtà anche il Cairo trova utile, arrivando così a evitare contatti tra Hamas e la Fratellanza Musulmana. Questo è solo uno degli ultimi passi per ridimensionare la Striscia, già compressa da un’altra zona tampone lungo il confine con Israele, già del tutto evacuata. Del piano di ricostruzione patrocinato dai Paesi arabi non si parla più, evitando di affrontare il vero punto nevralgico: il futuro politico di Gaza, ossia chi governerà la Striscia dopo l’eventuale cessazione delle ostilità.
Nessuno vuole Hamas, ma oggi, secondo l’intelligence israeliana, potrebbe contare ancora su 40.000 miliziani capaci di controllare il territorio. Nel vuoto di soluzioni concrete è emersa l’ipotesi di un ambiguo «Comitato indipendente di tecnocrati», eufemismo diplomatico per non voler ammettere l’assenza di soluzioni, che nel frattempo dà a Tel Aviv l’occasione di continuare nelle ostilità, necessarie a placare i partiti di estrema destra della sua coalizione. Nonostante tutto, la questione di Gaza è sempre più marginale nell’agenda internazionale. Ieri, l’immagine vincitrice del World Press Photo (il ritratto di Mahmoud Ajjour, 9 anni, che ha perso le braccia durante un raid israeliano a Gaza City, opera della fotografa palestinese Samar Abu Elouf) ha riportato in breve l’attenzione sulla tragedia dei bambini della Striscia. Una fotografia di forte impatto emotivo, ma insufficiente per riaccendere l’interesse diplomatico sulla questione palestinese.
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