Difesa e 2% del Pil: obiettivo mancato

È evidente l’imbarazzo italiano di fronte alla prospettiva europea di aumentare gli stanziamenti per la difesa oltre il 2% del Pil, indicata dal vertice Nato 2014 in Galles come «soglia minima» da raggiungere entro il 2024. Roma a quella percentuale non s’è mai avvicinata: inutile cercare responsabilità, dal 2014 nessun Governo c’è arrivato, da Renzi a Gentiloni, Conte I e II, Draghi e Meloni. Oggi il capitolo di spesa militare nel nostro bilancio è all’1,57% del Pil (e nel recentissimo Documento programmatico è previsto a 1,58% nel 2026, per «salire» a 1,61% nel 2027). Percentuale che per di più è frutto di italiche alchimie per farlo digerire alla Nato: dei circa 30 miliardi del bilancio, infatti, 7,8 sono spesi, quasi tutti in stipendi, per i Carabinieri (Forestali compresi), che, a parte un paio di eccellenti unità, poco hanno a che vedere con la Difesa in senso stretto. Nel totale poi rientra, ad esempio, anche la Guardia Costiera, servizio tecnico della Marina certo utilissimo alla Patria, ma con mezzi aerei e navali disarmati. Per la sola «funzione difesa» il rapporto spese difesa/Pil sarebbe perciò in realtà l’1,1% (di cui, per di più, i soli stipendi del personale ammontano al 60%).
Questo è. Nessuno, stanti le condizioni della nostra economia, estrarrà conigli dal cilindro per risolverla: solo per raggiungere il 2% bisognerebbe infatti aggiungere circa 9 miliardi all’anno (e ciò rende semplicemente irrealistica la prospettiva del 3%, ovvero 60 miliardi/anno). Il ministro Crosetto aveva detto al vertice Nato ‘23 a Vilnius (in clima bellico ma ante «ciclone Trump») che sarebbe stato impossibile raggiungere il 2% prima del 2028 (ma nella rimodulazione del nostro strumento militare si parlava già di «orizzonte 2032»). Adesso però siamo in difficoltà.
Uno dei mantra italici è sempre stato infatti «ce lo chiede l’Europa»: solo che ciò che vien chiesto è, nonostante i recenti «slanci» mediatici governativi verso un ipotetico 2,5%, uno sforzo difficile da digerire, pur facendo col placet di Bruxelles ulteriore debito (che sempre debito resta, per di più con prospettive temporali di rientro brevi), per un Paese in cui arrancano sanità, scuola, trasporti, occupazione, ecc. È quasi un «redde rationem».
Per decenni abbiamo depauperato la difesa, sia nel personale (oggi le Forze armate contano su circa 150mila militari, di età media ben oltre i 40 anni), sia in mezzi e dotazioni. Abbiamo ridotto al lumicino le riserve di munizioni e i poligoni in cui si possono addestrare (figuriamoci sparare) i reparti, spesso costretti a farlo all’estero.

Abbiamo sempre adottato l’equazione sbagliata: invece di scegliere gli obiettivi strategici e finanziarli di conseguenza, abbiamo preferito il «questi sono i soldi, vedete cosa si può fare». Non proprio il massimo per una delle otto «potenze» industriali. Abbiamo accumulato, specie nel settore terrestre, gravissimi ritardi e buchi in troppi settori. Un po’ meglio Aeronautica e Marina, pur con vari vuoti (come gli aerei antisommergibile e da trasporto strategico). Le acquisizioni sono poi sempre spalmate su troppi anni: è normale leggere che «saranno necessari ulteriori stanziamenti nei successivi bilanci» e molte delle nostre bellissime navi, ad esempio, sono «predisposte per» alcuni armamenti oggi non acquistabili.
La contingenza potrebbe servire però a intraprendere politiche di difesa serie e realistiche. In primo luogo puntando su cooperazioni industriali europee che consentano economie di scala e maggiore uniformità nelle dotazioni, magari evitando commesse per favorire o a salvare qualche industria locale, che si traducono poi in costi esorbitanti per mezzi inadeguati in prestazioni e numeri. E poi pensando alla difesa in termini in primo luogo militari, mettendo da parte scelte di facciata (il famigerato «dual use» civile-militare), utili al consenso ma che si scontrano con la realtà operativa.
Magari, infine, evitando il protrarsi (già fissato sino al 2027, dal 2008!) di missioni come Strade/Stazioni Sicure: costano un miliardo in quattro anni e impegnano 6.800 giovani soldati sottraendoli all’addestramento militare. Ciò in un Paese con 380mila uomini e donne nelle Forze dell’ordine (due volte e mezzo le Forze armate), tra Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Polizia locale (sempre tutti «sotto organico»).
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