Il Congo e la storia che si ripete 140 anni dopo

Il 26 febbraio 1885 chiudeva la Conferenza di Berlino sul controllo dell’Africa: i confini tra gli Stati, considerati a tutti gli effetti come una estensione del territorio europeo, vennero disegnati sulle carte geografiche tracciando semplici linee rette
Un villaggio nella provincia del Kivu Nord - Foto Wikipedia
Un villaggio nella provincia del Kivu Nord - Foto Wikipedia
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Sono passati 140 anni, ma la storia sembra ripetersi. Oggi come allora l’attenzione è rivolta al Congo. Soggetti diversi, stesse atrocità, stesso obiettivo: l’accaparramento delle risorse di uno dei Paesi con il sottosuolo più ricco al mondo. Dal 28 gennaio scorso, quando i miliziani dell’M23, spalleggiati dal Ruanda sono deflagrati nel nord, si contano 3.000 morti. Le ricchezze di oggi sono oro, terre rare, coltan.

Riavvolgiamo il nastro. L’Ottocento fu il secolo in cui il continente africano finì sotto la dominazione coloniale delle potenze europee. Nel 1876, approfittando del fatto che nessuno Stato europeo ancora esercitava il controllo sull’area del bacino idrografico del fiume Congo, Leopoldo II, re del Belgio decise di reclutare il più celebre esploratore dell'epoca, il giornalista anglo-americano Henry Morton Stanley, affinché concludesse finti contratti con i capi tribù, così da assicurarsi l’avorio e il caucciù, che si estrae dal lattice dei cosiddetti «alberi della gomma».

Per ottenere questa materia prima strategica, era necessaria molta forza lavoro. La polizia belga instaurò un regime di terrore: chi non consegnava la giusta quantità di caucciù, veniva fustigato, mutilato, ucciso. Le fonti parlano di 10mila morti. Tutto questo avvenne sotto l’egida dell'Associazione Internazionale Africana, fondata da Leopoldo II per «promuovere l'esplorazione e la colonizzazione dell'Africa», la cui natura era apparentemente umanitaria.

Preoccupato dalle crescenti tensioni fra le potenze europee nel continente africano, ma anche per regolamentare le procedure per la spartizione delle terre, il cancelliere dell’Impero Tedesco Otto von Bismarck, indisse la Conferenza di Berlino, una serie di incontri che si tennero tra il 15 novembre 1884 e il 26 febbraio 1885.

Furono invitati i Paesi che erano già presenti nel continente; all’epoca i protagonisti erano l’Inghilterra (in Sudafrica già dal lontano 1814), la Francia (che era in Algeria dal 1830), e la stessa Germania (in Camerun e nell’Africa di sud-ovest a partire dal 1871). Alla Conferenza, di contro, non furono in alcun modo invitati i leader africani. L’arresto dell’espansionismo coloniale non fu affatto contemplato. Assurgeva, quindi, a pratica sacrosanta, quello che è poi stato assunto dai manuali di storia sotto l’etichetta di «the Scramble for Africa», vale a dire «la corsa all’Africa».

Nei fatti, per quanto attiene il Congo, fu riconosciuta la legittimità dell’occupazione belga, perciò lo «Stato Libero del Congo» – il nome è quasi un ossimoro, dato che tutto era, fuorché libero –, fu istituito ufficialmente come colonia. I confini tra gli Stati, considerati a tutti gli effetti come una estensione del territorio europeo, vennero disegnati sulle carte geografiche tracciando semplici linee rette, azzerando così appartenenze etniche, differenze linguistiche e religiose, e ponendo i semi per sanguinose guerre civili.

Ma nell’Atto generale che concluse la Conferenza, firmato appunto il 26 febbraio 1885 da tutti i leader europei partecipanti, il protagonista è il «benessere materiale e morale delle popolazioni indigene».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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