C’è un futuro per democrazia e politica

L’intero ordine politico scaturito dopo la fine della seconda guerra mondiale e poi dopo il crollo del sistema sovietico, oggi è alle prese con sconvolgimenti fino a ieri inimmaginabili. E con esso è in crisi la democrazia.
Basta guardare agli Stati Uniti, alla vicenda di Capitol Hill, alla «guerra civile» tra Donald Trump e Kamala Harris, a quanto sta accadendo in Europa dove, accanto a democrature autoritarie, sempre più accentuate sono le tendenze verso la postdemocrazia. Vale a dire un sistema in cui nuove forme di esercizio del potere rischiano di alterare in chiave oligarchico-elitaria la democrazia liberale rappresentativa. La dinamica politica continua sì a svolgersi secondo le regole e procedure democratiche, ma la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica non solo tende a passivizzarsi, ma deve sempre più misurarsi con il ruolo preponderante assunto da burocrazia, tecnocrati, lobbies, imprese economico finanziarie, mass media, organi intergovernativi.
Lo stesso compromesso socialdemocratico tra capitalismo e democrazia è finito ormai in archivio a fronte del successo ottenuto dal paradigma ordo e turboliberista. A questo si aggiunga che sempre più debole, se non latitante, è l’iniziativa di soggetti collettivi quali movimenti, sindacati, formazioni politiche. Queste ultime sono persino refrattarie a definirsi partiti. Un dato non puramente nominalistico che rimanda piuttosto ad una situazione di fatto: la loro riduzione progressiva a comitati elettorali inabilitati a rappresentare le istanze della società.
Come ha scritto recentemente Carlo Galli «il paradigma neoliberista, che ha visto prevalere l’austerità sull’euforia e la disuguaglianza sullo sviluppo delle opportunità», ha finito coll’incrinare «le basi morali e materiali della democrazia, generando alla fine apatìa e rancore».
È possibile allora pensare ad un’opera di ricostruzione o ci si deve rassegnare ad una inarrestabile deriva per di più accompagnata da un’insorgenza populistica e da esperimenti di architettura istituzionale volti ad organizzare in chiave personalizzante assetti congegnati al fine di verticalizzare il potere? Il quesito ovviamente non trova facili risposte, anzi è prevedibile che possa restare nei fatti irrisolto. Alcune ipotesi si possono comunque azzardare.
Anzitutto c’è bisogno di una nuova cultura politica che possa tradursi in prassi, in progettualità. A questo proposito è a partire dalla sfera prepolitica che si tratta di operare. Qui intendo riferirmi alla elaborazione di visioni - una volta erano le ideologie - di un’etica, di una antropologia in grado di misurarsi con le sfide del presente e quelle del futuro, nonché abilitate ad attribuire un’anima alla politica. Ed in proposito un ruolo dovrà avere lo stimolo derivante anche da un’ispirazione religiosa capace di interpretare le esigenze di affermazione dell’umano e della sua dignità, del suo bisogno di trascendersi.
In secondo luogo si tratta di individuare soggettività collettive capaci di dinamismo politico, di essere protagoniste della vita pubblica, quei corpi intermedi disponibili a pratiche non corporative, a non rassegnarsi alla rottura dei legamenti sociali. E ancora: iniziative dal basso che possono agire attraverso pressioni esterne al sistema dei partiti - ad esempio con i referendum -, accompagnate da uno sforzo agito dall’alto volto alla formazione di nuove classi dirigenti, in modo che i partiti possano ritrovare credibilità svolgendo la necessaria mediazione tra istituzioni e società, indirizzando l’economia e sottraendola al primato assoluto del mercato, alla sudditanza ai vincoli esterni, allo strapotere delle multinazionali. Così concepita la rappresentanza politica può ritrovare una funzione promozionale e la politica il suo rapporto col sociale, ben oltre la pura logica di sopravvivenza di un ceto di professionisti. Quanto ai partiti la loro riorganizzazione non può che essere affidata ad una legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione. Qui però torniamo a capo. Così come si dice: «Chi educherà gli educatori?», allo stesso modo ci si può chiedere: quale attore sarà soggetto di tutto questo? Forse sarà una qualche necessità divenuta ad un certo punto inesorabilmente indifferibile.
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