Welfare aziendale, un’opzione che conviene all’azienda

Sono dipendente e rappresentante sindacale nella Rsu di una nota fabbrica metalmeccanica triumplina ed ho letto con attenzione il fondo del GdB di mercoledì 16 novembre «Welfare aziendale opzione in crescita». Ho notato uno spirito poco critico nell’articolo: l’opzione welfare veniva lodata da più punti di vista, senza trovarvi neppure una pur minima critica oggettiva a questo nuovo modo di incrementare il benessere per i dipendenti. Allora ci provo io, visto che sulla mia pelle vivo questo welfare aziendale. Di sicuro il welfare aziendale non è conveniente per i dipendenti lavoratori. Diciamolo subito senza ombra di dubbio. Perché l’aumento salariale in busta paga rimane la più vantaggiosa e remunerativa opzione di incremento del benessere della persona lavoratrice, in quanto aumenta la mia capacità economica a 360 gradi, lasciando a me la volontà e la disponibilità ad utilizzare come meglio credo quell’aumento salariale. In ogni campo ed ambito. Non è certo subordinata ad un piano welfare aziendale che limita la mia volontà a far la spesa in quel determinato supermercato o in quell’altro, oppure ad utilizzare questo o quel distributore di benzina (anche se si trova a 30 chilometri da casa mia). Tra l’altro l’aumento salariale si ripercuote poi su tanti istituti contrattuali, fino ad una maggiore contribuzione per la mia futura pensione, cosa che invece col welfare aziendale non succede. Detto questo, tutto il resto è la classica contrattazione al ribasso con la parte datoriale. Io azienda non voglio corrisponderti salario, ma benefit (con i limiti che abbiamo visto sopra) che per me sono esentasse e convenienti (il risparmio fiscale del dipendente è uno specchietto per le allodole visto che più paghi tasse e più sei ricco, e comunque il beneficio derivante non ripaga certo il beneficio dell’aumento salariale puro). Quindi il dipendente contratta benefit al ribasso (meno salario in cambio di benefit spesso non utilizzabili e non utilizzati - se verso per esempio un tot in sanità complementare ne trarrò beneficio solo se la utilizzo, se sono sano e non la utilizzo entro un certo periodo di tempo - di solito un anno - quel pezzo di welfare lo perdo e comunque non si trasforma certo in soldi veri) mentre le aziende contrattano benefit al rialzo (metto sul piatto lo stesso valore economico assoluto ma ci risparmio tasse e contributi): chi fra aziende e dipendenti spingerà per il welfare aziendale? A chi conviene? La contrattazione di secondo livello - che porta alle forme di welfare che dicevamo - è utilizzata poi solo nel 20% circa delle aziende/ditte/attività produttive italiane e che poche altre attività utilizzano forme di welfare a beneficio dei dipendenti senza contrattazione interna, e capiremo come la platea di questa opzione welfare sia molto limitata e destinata a pochi «eletti» (di solito i più fortunati che lavorano in grandi realtà produttive). Ciliegina sulla torta sono i vari bonus energia ed aiuto bis, ter e quater che si stanno susseguendo emanati dai governi in carica, che continuano a mettere risorse sui bonus senza pensare (o forse pensandoci bene...) che se l’azienda è disponibile si può aprire una trattativa su quanto e come poter mettere a disposizione tali risorse, ma se l’azienda è indisponibile non c’è santo che tenga, e i dipendenti si ritrovano col solito «0» alla casella entrate. Quindi che il welfare sia un opzione è assodato e lo dico come presidente del Cral aziendale che porta avanti forme simili di aiuto al benessere del dipendente/socio - anche se il nostro Cral non è riconosciuto dall’azienda -, ma che debba restare confinata al suo ruolo e non pretendere, con i tempi bui che stiamo attraversando, di diventare una forma sempre più utilizzata per corrispondere il lavoro dei propri dipendenti è, per conto mio, altrettanto assodato. Perché i primi a perderci, in caso contrario, siamo noi lavoratori dipendenti.
// Gianpaolo RavizzolaConcesio
Gentile lettore, welfare aziendale è espressione generica se presa in sé: può indicare tanto i benefit decisi sua sponte dall’azienda come i servizi o bonus definiti da una trattativa tra azienda e sindacati (quindi frutto di libera contrattazione). Tutti d’accordo che non possono essere le (tante) prestazioni dedicate al tempo libero - l’esempio tipico portato è quello del volo in mongolfiera - le vere «conquiste» del welfare aziendale, fatto sottolineato in un recente convegno della Rete Welfare in Cattolica a Milano responsabile, cui ha partecipato anche l’editorialista del nostro giornale. Ma il fatto che si moltiplichino a livello aziendale accordi con significativi servizi di welfare attesta che questo riveste ormai una sua importanza per i lavoratori, e non solo per le aziende, e può rappresentare, se gestito responsabilmente, una delle possibili strade complementari da percorrere nella riforma del welfare generale. (g.c.)
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