Una professoressa mi ha bullizzato È così che ho reagito
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Lettere al direttore
AA
Questa mia lettera parte da lontano e racconta una storia lunga trent’anni. Sono Marco, ho quarantuno anni e sono del lago d’Iseo. Partiamo da oggi: sono felicemente sposato, ho una bella carriera, sono un professionista riconosciuto, guido un team in una multinazionale. Insomma, non mi è andata male. Quello che sono oggi, come per tutti, è la somma di ciò che ho imparato e quello che ho imparato è qualcosa che mi hanno insegnato. Ho avuto insegnanti fantastici: mio padre ad esempio. Mi ha insegnato che le cose si fanno, non si dicono. Mi ha insegnato il silenzio come risposta, quando le parole non sono necessarie. Mi ha insegnato che il garbo non è debolezza, ma resilienza. Il mio primo pazzo capo: mi ha insegnato che il lavoro premia, mi ha insegnato a metterci passione, mi ha insegnato il valore del lavoro. Il mio professore di Chimica e la mia professoressa di Italiano delle superiori, tutto il personale docente del «Chimico» di Breno, che hanno visto oltre la sregolatezza. Intuendo che ci fosse anche del genio, hanno chiuso uno, due, tre occhi e mi hanno dato una possibilità, quando stroncarmi avrebbe voluto dire che mi sarei perso. Potrei fare altri mille esempi positivi, ma ne cito ancora solo uno: mia moglie. Con la sua pazienza, dolcezza, intelligenza ha saputo aspettarmi, ha saputo vedermi, come io ho visto lei... anzi, l’ho percepita. Ho trovato una persona che nonostante abbia tutto per piangersi addosso, non si abbatte mai. Se cade, si rialza. La mia colonna, il mio tutto! Mi ha insegnato «a stare al mondo», ha creduto in me, da lei ho appreso come ci si relaziona con le persone. Insieme, abbiamo imparato cosa sia l’amore incondizionato. Giuro, vi auguro di provarlo una volta nella vita. Ora però, c’è un’eccezione che vorrei raccontare. Un caso negativo. Una professoressa che ha fatto tutto il contrario di quello che chi riveste quel ruolo dovrebbe fare. Alle medie, fui assegnato alla classe di questa insegnante, temuta per la sua severità. Era una materia che amavo la sua, l’italiano. In me c’era un misto di gioia e paura, una tensione bella. Fu un incubo. Mi prese di mira. Mi denigrava, mi odiava per la mia stravaganza, per la mia intelligenza sopra la media e sopra le righe. Ero obeso. Ci fu una volta in classe che si leggeva un racconto breve di narrativa. Uno dei personaggi del brano era «un bambino grasso con la voce stridula». Lei, dopo aver interrotto la lettura disse, fissandomi: «Non è vero che i bambini ciccioni con la vocina fanno ridere a vederli?». Una coltellata mi avrebbe fatto meno male. Sanguina tutt’ora quella ferita. Vorrei rivederla e chiederle solo: perché? Altri episodi accaduti: ad un colloquio, disse a mia madre che io sarei diventato un delinquente. Mi mandava fuori dalla classe di default, mi bullizzava. Presi un ottimo (o 10?). Uno dei pochissimi della sua carriera. Lì, depose le armi, fu come se una tregua armata fosse stata firmata. Finì l’anno, mi cambiarono di sezione, non la vidi mai più. Era un’altra epoca, direte... Forse oggi non sarei un bambino geniale ma sregolato. Sarei un bambino «gifted». Adhd magari. Allora ero solo un bambino grasso che non capiva perché una professoressa lo bullizzava, che di colpo, a undici anni, non era più solo sregolato. Era sregolato e arrabbiato. Non avrei mai più permesso che mi si mettessero i piedi in testa, a qualunque costo. Io spero di esser stato la sua unica vittima, ma non credo. So che ha avuto una brillante carriera, ha scritto un libro scolastico con il preside dell’istituto, ha vissuto una vita nella buona società, grazie alla posizione apicale del suo amante, poi marito. Perché scrivo tutto questo? Non lo so, credo che lo stia scrivendo al mio «io» bambino. Le sto scrivendo perché vorrei dirgli: tieni duro, stai calmo, non mollare, non odiare. Ma ciò che è stato, è stato. C’è una piastrella a Malpensa, c’è inciso: ogni passo che hai fatto nella tua vita, ti ha portato ad essere qui, ora. Io sono qui, sono andato avanti, mi consola solo la consapevolezza che lei allora aveva il potere... Io allora avevo il tempo.
M. R.
Carissimo,
ciò che vorrebbe dire al sé «bambino» è quanto i bambini, anche a sentirselo dire, non ascolterebbero. O, meglio, lo sentirebbero senza comprenderlo appieno. Esso infatti rappresenta il delta che soltanto l’esperienza, cioè il provare sulla propria pelle, riesce a colmare.
Vale anche per quando vorremmo farlo con i nostri figli, illudendoci di offrire loro una scorciatoia che li metta al riparo da inciampi, scossoni, bernoccoli. Al contrario, sono proprio bernoccoli, inciampi e scossoni che fanno crescere, rendendoci adulti (c’è una bella espressione che, quando cadevamo, usavano dirci i nostri genitori e i nonni: «Sei diventato grande»; allora non lo capivamo, ora sì).
Un lungo preambolo per una risposta breve. Complimenti a lei per come ha saputo reagire. Memento invece a quei professori o maestri che ignorano il peso delle loro parole. Un giogo che, per chi come lei è fortunato o ha carattere forte, si trasforma in sprone, mentre diventa macina al collo per i più deboli e chi ha carattere sensibile. (g. bar.)
M. R.
Carissimo,
ciò che vorrebbe dire al sé «bambino» è quanto i bambini, anche a sentirselo dire, non ascolterebbero. O, meglio, lo sentirebbero senza comprenderlo appieno. Esso infatti rappresenta il delta che soltanto l’esperienza, cioè il provare sulla propria pelle, riesce a colmare.
Vale anche per quando vorremmo farlo con i nostri figli, illudendoci di offrire loro una scorciatoia che li metta al riparo da inciampi, scossoni, bernoccoli. Al contrario, sono proprio bernoccoli, inciampi e scossoni che fanno crescere, rendendoci adulti (c’è una bella espressione che, quando cadevamo, usavano dirci i nostri genitori e i nonni: «Sei diventato grande»; allora non lo capivamo, ora sì).
Un lungo preambolo per una risposta breve. Complimenti a lei per come ha saputo reagire. Memento invece a quei professori o maestri che ignorano il peso delle loro parole. Un giogo che, per chi come lei è fortunato o ha carattere forte, si trasforma in sprone, mentre diventa macina al collo per i più deboli e chi ha carattere sensibile. (g. bar.)
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