Si parla d’inclusione ma da cinque anni non trovo un lavoro

Scrivo questa lettera con rabbia, essendo stato scartato a un colloquio di lavoro per l’ennesima volta. Una premessa: ho 55 anni e sono disoccupato ormai da cinque, cioè da quando l’azienda per cui lavoravo fu acquisita da una multinazionale e lasciò a casa i lavoratori ritenuti «non essenziali». Inoltre, sono inserito nelle Categorie Protette (ex L.68/99), avendo un certo grado di invalidità che dovrebbe darmi accesso a un collocamento preferenziale. Vengo al punto: pochi giorni fa mi sono recato a un colloquio di lavoro per una posizione di impiegato in categoria protetta. Il selezionatore lascia che mi presenti e poi, guardando il mio curriculum vitae, mi ha detto: «Vedo che lei non lavora da cinque anni…», con un tono di sufficienza, quasi come per darmi del fannullone. Provate a indovinare come si è concluso il colloquio? «Le faremo sapere». Ho sopportato a lungo l’umiliazione di essere congedato con questa frase. Ora però basta, non ne posso più. Sono stufo! Non è possibile che in cinque anni di disoccupazione e di colloqui continui io non riesca a trovare niente, ma proprio nemmeno uno straccio di lavoro. Ho due figli a cui provvedere, i conti da pagare, e mia moglie (che fino a poco fa era l’unica a lavorare con il cancro) è malata; quindi capite che se sono disoccupato non è un «problema», ma una tragedia. Ce l’ho sempre messa tutta, ma ogni volta mi ritrovo a fare un buco nell’acqua. Anche quando mi candido a posizioni riservate alle categorie protette, ho la netta sensazione di non incontrare la considerazione che sarebbe dovuta al mio «status». Ma scusate, le malattie che mi rendono invalido non sono colpa mia. Eppure, sembra quasi che mi trattino come se io me le sia andate a cercare. Con amarezza mi tocca fare una riflessione scomoda: se le cose stanno così, non è vero che il mondo del lavoro si impegna a integrare invalidi e disabili, ma piuttosto cerca di tenerli ai margini o nasconderli perché siano invisibili. Conosco altri come me, e anche loro pensano la stessa cosa. Alla fin fine un invalido cosa deve fare? Andare a chiedere l’elemosina davanti ai semafori o alle chiese? Ma io non voglio pietà. Voglio la dignità di un lavoro. Noi invalidi siamo persone, non fenomeni da baraccone. Il tempo in cui si andava a vedere al circo il nano e la donna barbuta è tramontato da un bel pezzo, ma qualcuno forse non se n’è accorto. A chi mi ha respinto chiedo: ti senti la coscienza tranquilla ad aver lasciato a casa un uomo di 55 anni che ha moglie e figli a cui provvedere e che forse non potrà mai andare in pensione? E magari hai pure il coraggio di riempirti la bocca con parole come «diritti» e «inclusione» mentre fai una bella chiacchierata sulle Paralimpiadi. Bravo, ben fatto! Ma domani, come sempre, io non saprò come tirare avanti.
// Lettera firmata Gentile lettore, raccogliamo e rilanciamo le sue parole - è quel che può e deve fare un giornale - nella loro drammaticità, perché è giusto segnalare all’opinione pubblica la latente ipocrisia che spesso ancora si cela sotto i proclami e le buone intenzioni di inclusione lavorativa per persone con disabilità o invalidità, se per cinque anni un padre di famiglia non riesce a trovare un lavoro. L’Italia dispone da tempo di una legge per il cosiddetto lavoro protetto, ma sappiamo non basta una norma per fare una civiltà... Perciò, al di là della solidarietà concreta che pure speriamo si manifesti anche stavolta nei confronti di chi ha ci scritto, resta un nodo da affrontare sul serio, guardando anche all’esempio di altri Paesi dove alle norme si sono affiancate «buone pratiche», così da dare sostanza al termine che tanto amiamo, di civiltà. (g.c.)Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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