Riforma Autonomia O di qua o di là in un Paese spaccato

Lettere al direttore
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È di questi giorni l’approvazione della così detta «autonomia differenziata», una legge che suscita quanto meno dubbi e perplessità non solo nelle opposizioni, ma anche nel Presidente della Repubblica, che si è preso qualche giorno per la controfirma, in quanto l’ha definita una legge «complessa». I rappresentanti della Lega si sono precipitati a dichiarare che l’autonomia differenziata non costituisce un indebolimento dell’unità e indivisibilità della Repubblica, mentre Zaia ha fatto sapere che il Sud non sarà abbandonato. La precisazione di Zaia a mio parere si può rubricare nel noto brocardo latino: «Excusatio non petita, accusatio manifesta». Come si può definire non divisivo un provvedimento legislativo che prevede la possibilità da parte delle regioni di appropriarsi di 23 materie comprese sanità e scuola? Solo gli ingenui o gli sprovveduti lo potrebbero credere. Il paese con l’applicazione di questa legge viene di fatto spaccato in due, con un Nord all’altezza di standard avanzati e il Sud abbandonato al suo destino, con buona pace della questione Meridionale di gramsciana memoria. Una scuola e una sanità lombarde, venete e emiliane alquanto efficienti, e una sanità una scuola calabresi, lucane, abruzzesi di tutt’altro livello? È questa l’Italia che vogliamo? Un paese a macchia di leopardo con servizi differenziati che qualificano cittadini di serie A e cittadini di serie B a seconda della propria residenza? Ciò premesso, mi pare del tutto probabile la violazione dell’art. 3 della costituzione laddove viene definita l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini. Ma al di là dei profili di legittimità costituzionale che spettano ai giuristi della suprema corte e non certo allo scrivente, direi che comunque la riforma (o controriforma?) targata Calderoli costituisce politicamente un «vulnus» all’unità e indivisibilità del nostro paese. È proprio il caso di dire che «mala tempora currunt sed peiora parantur».
Emilio Zanetti
Brescia

Caro Emilio, ogni tre per due ci tocca di affrontare questi argomenti ad alto tasso di acidità, che scontentano tutti, destra e sinistra.

Prendiamo il suo caso. Se le dessimo ragione, o anche soltanto tenessimo conto di buona parte delle sue preoccupazioni, almeno tre lettori su dieci ci darebbero dei disfattisti, i soliti azzeccagarbugli tignosi del centro sinistra, che non va bene nulla di quello che fa l’attuale maggioranza e gridano «attenti ai fascisti!» ad ogni stormir di frasca.

Viceversa, se le dessimo torto, ecco alzarsi gli scudi di almeno altre tre, che ci etichetterebbero come destrorsi, proni al potere costituito, apostati della Costituzione, superficiali osservatori incapaci di osservare come tutto tenda alla catastrofe, alla rovina, fiancheggiatori «in pectore» di una strisciante dittatura.

Ecco perché siamo prudenti nello schierarci, ostinandoci di vedere il buono sia in chi tenta di modificare parte dell’assetto attuale centralizzato, sia chi mette in guardia da possibili storture che causerebbero più guai che vantaggio. Di certo non possiamo nascondere che, come principio, quello della maggiore «autonomia», che tuttavia abbia come seconda gamba il concetto di «responsabilità», ci affascina. L’immobilismo non è mai stato infatti nelle nostre corde e fare qualcosa è sempre preferibile dello stare con le mani in mano, senza tentare nulla.

Ci sono dei rischi? Certamente.

Com’è stata formulata, per legge, pare un pasticcio ingarbugliato e poco chiaro? Vero anche questo.

Tuttavia, e ci rivolgiamo ai restanti sei cittadini su dieci, quelli cioè che non si schierano a prescindere e che ultimamente nemmeno votano, forse varrebbe la pena non buttare con l’acqua sporca pure il bimbo. Questo tentativo, dunque, fosse per noi, lo metteremmo alla prova. (g. bar.)

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