Quarant’anni di ospedale Civile visto da dentro
Lettere al direttore
AA
Era il 25 novembre 1981 quando iniziai a lavorare per questa azienda (al tempo Ente Ospedaliero Spedali Civili). Tra poco più di un mese sarò pensionato e con questa lettera aperta al dottor Cajazzo desidero rappresentare a tutti i dipendenti e collaboratori dell’Asst, alcune personali riflessioni a conclusione di un lungo ed intenso spaccato della mia vita.
Come potrà immaginare, in questi anni ho macinato migliaia e migliaia di chilometri all’interno del «nostro» Ospedale Civile, punto di riferimento di questa ampia e complessa Azienda Socio Sanitaria Territoriale che, nel corso del tempo, si è via via venuta a formare.
All’epoca della mia assunzione, infatti, l’Ente Ospedaliero Spedali Civili, per antonomasia l’Ospedale della città e dei bresciani, era costituito esclusivamente da questo nosocomio. Appena diciannovenne, preso il diploma di maturità tecnica di geometra, ho avuto l’opportunità di far parte di questa grande famiglia che mi ha visto crescere e con la quale ho condiviso gioie e dolori, sorrisi e pianti, scontri ed abbracci. E, soprattutto, ho potuto coltivare amicizie ed affetti.
È stato un percorso a volte accidentato, a volte particolarmente difficile, ma che nel complesso mi ha riservato molteplici soddisfazioni, sia a livello professionale sia a livello personale. Un percorso che ha visto «cambiare il mondo», sotto tutti i punti di vista. Come non ricordare quell’intensissimo odore di alcool che ti avvolgeva appena entravi nella struttura ospedaliera, come non ricordare le suore (Ancelle delle Carità) dalle quali dipendeva il tutto, come non ricordare i «Primari» tutti d’un pezzo che, con la loro grande conoscenza scientifica, ti mettevano paura solo a guardarli. E ancora. Come non ricordare quelle che al tempo erano le nostre dotazioni d’ufficio: carta e penna, macchina da scrivere «Olivetti», carta carbone, carta velina, calcolatrice da tavolo, e - per noi geometri - tecnigrafo, carta lucida, penne a china (chiamate rapidograph). Ah, dimenticavo... Avevamo anche un telefono, quello fisso, con la cornetta e il disco per comporre i numeri!
Anche dal punto di vista medico, le dotazioni erano al tempo poco performanti, anche se il Civile - a dire il vero - ha sempre colto con la massima puntualità tutte le innovazioni e le opportunità che il mercato ha man mano reso disponibili. Pure le strutture e gli impianti ad esse correlati erano «minimal», ma ciò nonostante il Civile è sempre stato un grande ospedale!
La medicina ha fatto passi da gigante, i sistemi di comunicazione sono arrivati a traguardi oggettivamente inimmaginabili, gli strumenti di lavoro hanno rivoluzionato il nostro agire e la nostra manualità. È cambiata l’intera società, sono cambiati i costumi, i modi di essere ed i modi di vivere. È cambiato il nostro Ente che si è enormemente ingrandito, sia dal punto di vista del numero delle strutture afferenti sia dal punto di vista dell’erogazione dei servizi.
Quello che non è cambiato è il mio attaccamento al lavoro, come non è cambiato l’attaccamento al lavoro della stragrande maggioranza de
i colleghi di ogni ordine e grado che 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 365 giorni l’anno (366 negli anni bisestili), si prendono cura di chi ha bisogno. Questa è stata ed è la più grande ed insostituibile dotazione del «nostro» Ospedale, intrisa di professionalità, laboriosità e dedizione.
E non posso qui non ricordare gli anni bui del Covid, quei 2 anni di stravolgimenti che hanno sfidato e messo a dura prova le nostre vite, il nostro lavoro e il nostro futuro. Anche in quei periodi di distruzione e di morte, dove le sirene delle ambulanze - nel silenzio più totale - si erano appropriate della città, non ci siamo tirati indietro. Abbiamo combattuto fino allo stremo delle forze, abbiamo versato fiumi di lacrime, ma ce l’abbiamo fatta! Perché chi lavora nelle corsie degli ospedali, nei luoghi di assistenza e cura, nelle residenze in cui la sofferenza è quotidiana, sa riconoscere ogni giorno, ogni istante, che la vita è un bene prezioso, il più alto valore da custodire e preservare.
Tornando alla mia personale esperienza, non posso che dire bene. Bene per ciò che ho dato e bene per ciò che ho ricevuto. Ogni giorno, dietro la mia scrivania o nei cantieri che via via ho visto nascere, ho riversato tutte le energie che avevo in corpo, senza risparmio. Alla domanda «Hai dato tutto?» posso serenamente rispondere con un convinto sì. Sì, quello che potevo dare l’ho dato, briciole comprese. E di questo ne sono orgogliosamente felice. Con il cuore pieno di gratitudine per tutti coloro che sono stati miei compagni di viaggio in questo lungo percorso di vita.
Desidero qui ringraziare anche i colleghi dell’Assessorato alla Sanità di Regione Lombardia e ricordare due persone dalle quali ho imparato grandi cose. In primis, l’On. Sen. Italo Nicoletto (1909 - 1992), partigiano «Andreis» e parlamentare della Repubblica, già vicepresidente del Consiglio di Amministrazione degli Spedali Civili, uomo di grande sensibilità che ha saputo spendersi sino alla fine per il bene comune, per i più fragili e per i più bisognosi. E poi l’Ing. Ezio Corona (1922 - 2006), mio primo «capo», persona di grande cultura e di eccellente preparazione tecnica, che anche con la sua smisurata, amorevole e schietta fiducia mi ha fatto muovere i primi passi in un contesto complicato e variegato.
Un deferente pensiero ai colleghi dell’Asst che hanno perso la vita in costanza di servizio, in rappresentanza di tutti desidero fare memoria degli amici Santina Bettinzoli (1962 - 2001) e Mauro Piccoli (1968 - 2015) che hanno saputo trasformare il loro lavoro in un esempio virtuoso di dedizione e di persone perbene.
Che dire ancora.
Ho amato a dismisura questo Ospedale e questa Azienda. Faro ed ispirazione è stata la scritta marmorea, a me molto cara, che campeggia sulla facciata dell’Aula Magna dell’Ospedale Civile. Così recita: «Varca fiducioso la soglia/fratello/col tuo dolore con la tua speranza/amore e scienza vegliano/affinché possa/ nuovamente sorriderti la vita»
È un inno alla vita, all’accoglienza, alla tenerezza. Non importa se sei bianco o se sei nero, se sei ric
co o se sei povero, se sei italiano o se sei straniero. Sei solo un fratello che ha bisogno di aiuto, quell’aiuto che noi comunità ospedaliera siamo chiamati ad offrire «con amore e scienza».
Ecco, il nostro lavoro, quello che facciamo tutti i giorni, quello che ho sempre fatto, è proprio incardinato su questi due inscindibili pilastri.
Un ultimo pensiero, una riflessione che ho tratto dal libro «Pellegrino in corsia» di Don Gianluca Mangeri, medico oncologo, sacerdote, cappellano dell’istituto Ospedaliero Poliambulanza di Brescia: «Sii semplice e fa’ il bene. Bastano piccole cose: uno sguardo di comprensione, una stretta di mano, una preghiera dal cuore. Semina il bene! Anche con un semplice saluto, con un sorriso. Non puoi immaginarne il frutto!».
Gabriele Tonini
Dipendente Asst Spedali Civili
Caro Gabriele,
il suo è un lungo amarcord che manteniamo quasi integrale poiché immaginiamo le molte persone che nelle sue memorie ritroveranno le loro.
Da ciò che scrive si comprende il segreto di una struttura tanto complessa: le persone. Uomini e donne che hanno ricevuto un testimone, portandolo con rigore ed orgoglio.
La preoccupazione, non lo nascondiamo, è che a furia di tagli, burocrazia, incongruenze, tale eccellenza vada scemando o scompaia del tutto.
Una parte di noi è pessimista e scuote il capo, vedendo chi lascia il Civile e i tempi che cambiano. Il lato più umano invece si oppone, prendendo come appiglio di fiducia le tante persone che ancora ci lavorano, a cominciare dalle molte che di giorno in giorno vengono citate e ringraziate dai semplici cittadini qui, in questo spazio. Un seme di bene che non va soffocato, poiché solo se metterà germoglio la renderà, ci renderà, orgogliosi del Civile pure in futuro. (g. bar.)
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Condividi l'articolo
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato