Pane e farina. Elogio di un cibo che fa la storia

Lettere al direttore
AA
Un tempo non troppo lontano nelle fornerie veniva prodotto «Il pane comune». Era un obbligo di legge e prodotto con farina di tipo 0. Al tempo era comprare il pane dei poveri, viceversa era il migliore per il bene della salute e dell'organismo. Primo perché la farina 0 (zero) ricavata dalla parte più esterna del grano di frumento, dove è contenuto una parte di farinaccio, farinello e crusca, fa molto bene all’organismo umano. Non c’erano obblighi di etichettare. Oggi con nuove regole introdotte dalla ricerca, si deve indicare in etichetta il contenuto della stessa specificando le proprietà organolettiche. Tutta la farina ricavata dal frumento (farina bianca) contiene glutine e oggi assumono importanza le informazioni sulla quantità contenuta, differenziate nel segno «W»: la farina di tipo 0 deve arrivare a 170; quella di tipo 00 da 180 a 260; la farina forte, quella, per intenderci, adatta per il pane soffiato e in pasticceria per lievitati, da 270 a 350; infine la manitoba, che è una farina proveniente dalla regione omonima del basso Canada e dalle zone nord degli Usa, con un valore che va da 360 a 460. La manitoba ha quelle caratteristiche perché là il terreno dà quella forza al grano, così come la farina di grano duro che si ricava in Puglia è possibile seminarla anche altrove, ma senza un identico risultato. Altro argomento importante è la dicitura: «Potrebbe contenere: soia, lupini, e senape». La polvere di questi tre prodotti è contrassegnata nella legge sull’alimentazione come allergeni e non tutte le persone li sopportano. I consumatori, come possono difendersi? Se vanno a comprare un sacchetto di farina per fare gnocchi o lavori da cucina varia devono comprare la farina e non polvere di soia, lupini, o senape o altro. In questo caso, il legislatore e i controllori delle Asl chiamati a verificare i produttori ultimi, come panettieri, pasticceri, addetti alla ristorazione, come potrebbero salvaguardare il consumatore? Cosa dovrebbero pretendere, che sia scritto tutte nelle carte dei menù? Possono essere loro stessi capaci di dare giuste indicazioni? Impossibile... E qui siamo alle solita lettura delle regole, delle leggi e delle interpretazioni all’italiana.
Faustino (Tino) Bono
Tirano
Caro Faustino, lo ammettiamo: lei è stato bravissimo, gravido di dettagli e puntiglioso assai nel raccontare tutte le difficoltà della filiera, con tanto di morale, tipicamente italiana. Noi però già dalla quarta o quinta riga ci siamo persi appresso la memoria, ricordando il profumo che dal forno del panettiere sotto casa si diffondeva di buon’ora. Erano altri tempi, nei quali i negozi di paese o di quartiere erano botteghe e non esistevano le cento varietà di prodotti oggi in bella mostra. «Pane comune» scopriamo essere la dicitura esatta, anche se nei borghi di Lombardia aveva nomi più accattivanti, come michetta o rosetta. Di pane eravamo già ghiotti allora, in un’epoca in cui era cibo a buon mercato e non certo considerato una leccornia. Tanto che quando a pranzo o a cena ci si avventava sul companatico, se si trascurava di accompagnarlo alla michetta, si veniva rimbrottati con la frase: «E il pane? È fatto di farina?». E, ultimo ma prezioso imperativo, che rispettiamo tuttora: in tavola non doveva mai esser messo capovolto. Un segno di rispetto e deferenza per la pietanza che per generazioni intere è stata architrave di sopravvivenza. (g. bar.)
Tirano
Caro Faustino, lo ammettiamo: lei è stato bravissimo, gravido di dettagli e puntiglioso assai nel raccontare tutte le difficoltà della filiera, con tanto di morale, tipicamente italiana. Noi però già dalla quarta o quinta riga ci siamo persi appresso la memoria, ricordando il profumo che dal forno del panettiere sotto casa si diffondeva di buon’ora. Erano altri tempi, nei quali i negozi di paese o di quartiere erano botteghe e non esistevano le cento varietà di prodotti oggi in bella mostra. «Pane comune» scopriamo essere la dicitura esatta, anche se nei borghi di Lombardia aveva nomi più accattivanti, come michetta o rosetta. Di pane eravamo già ghiotti allora, in un’epoca in cui era cibo a buon mercato e non certo considerato una leccornia. Tanto che quando a pranzo o a cena ci si avventava sul companatico, se si trascurava di accompagnarlo alla michetta, si veniva rimbrottati con la frase: «E il pane? È fatto di farina?». E, ultimo ma prezioso imperativo, che rispettiamo tuttora: in tavola non doveva mai esser messo capovolto. Un segno di rispetto e deferenza per la pietanza che per generazioni intere è stata architrave di sopravvivenza. (g. bar.)
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Condividi l'articolo
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato