Mia sorella affetta da tetraparesi Una lezione di vita
Lettere al direttore
AA
Stavamo lì, per terra, allineate, l’una di fianco all’altra: lei distesa sopra un vello di pecora (allora si usava così, non c’erano i presidi di cui oggi disponiamo), io supina, direttamente sopra il pavimento di graniglia della nostra camera da letto. La fisioterapista, che i miei genitori facevano venire a casa, a loro spese, da Albino, un paesino della bergamasca, lavorava muovendo ritmicamente gli arti di mia sorella ed io, lì in parte, ripetevo gli esercizi, convinta che stessimo facendo ginnastica.
È questa la prima percezione che ho avuto di mia sorella, il primo ricordo che mi affiora alla mente: lei avrà avuto poco più di un anno ed io diciotto mesi di più. All’inizio non coglievo nessuna diversità tra me e lei: non camminava ma per me era normale, era piccola! Non parlava ma tutti i bambini piccoli non parlano. Però giocava, sorrideva, riuscivo a coinvolgerla e lei mi seguiva dal passeggino o dal seggiolone, anche se stava seduta in modo «strano».
Avvertivo però la preoccupazione dei miei genitori, captavo i loro discorsi e talvolta anche le lacrime di mia madre: cosa c’era che non andava? Perché tutti continuavano a dire: «che peccato, è così bella, è stata sfortunata»? Perché mi assillavano con frasi del tipo: «Nunzia, devi fare la brava, non devi dare dispiaceri ai tuoi genitori, devi stare attenta alla tua sorellina perché è ammalata, devi difenderla sempre ed aiutarla»?
Ho capito, più in là nella mia vita di bambina: mia sorella Raffaella è affetta da una tetraparesi spastica con deficit uditivo e grave compromissione del linguaggio, esiti di un danno emorragico/ipossico cerebrale durante il parto. La diagnosi è arrivata tardi, soprattutto quella relativa al danno uditivo ma all’epoca (negli anni ’50) le acquisizioni scientifiche sull’argomento erano poche e gli interventi sanitari/riabilitativi tardivi e spesso inefficaci.
Fortunatamente i miei genitori erano nella condizione di provvedere autonomamente alla riabilitazione di Raffaella, sia sul piano motorio che del linguaggio e questo le ha consentito di realizzare enormi progressi, in un periodo in cui, in ambito pubblico, non esisteva alcun tipo di supporto: le diagnosi erano tardive, la riabilitazione psicomotoria inesistente, le protesi acustico/visive precoci impensabili, essi non potevano frequentare la scuola, di nessun grado e troppo spesso venivano relegati in istituti-ghetto, raramente venivano accuditi in casa, nei loro confronti prevaleva un senso di compassione e di vergogna nella maggior parte delle famiglie e di rifiuto in ambito sociale: erano gli anni immediatamente successivi alle ideologie razziste e fasciste, quando la collettività spesso escludeva o peggio ignorava del tutto chi aveva un «difetto», chi non era «normale».
Per fortuna Raffa è nata in una famiglia che ha sempre rifiutato questo filone di pensiero: i miei genitori si sono sempre impegnati per inserirla nella collettività, per educarla a stare in comunità, per educarmi ad accettare la sua disabilità senza farmene un problema. Tuttavia il problema c’era e non da poco:
anch’io, come tutti i fratelli di chi ha una disabilità, ho dovuto fare i conti con il dolore dei miei genitori, con il loro senso di delusione e frustrazione nei confronti di una figlia che non avrebbe mai avuto le stesse opportunità degli altri due figli, con i loro sensi di colpa che immancabilmente, anche se inconsciamente, trasferivano anche su di me, inculcandomi un imperativo senso del dovere e dell’accudimento che tanto avrebbe successivamente condizionato la mia vita, comprese le mie scelte professionali.
Se considero il periodo storico in cui mia sorella ha mosso i suoi primi difficilissimi passi, devo riconoscere che i miei genitori, in quegli anni, hanno ottenuto grandissimi risultati, che mia sorella ha dimostrato di possedere una enorme resilienza, raggiungendo obiettivi che ad altri, nelle sue stesse condizioni, erano, per loro ulteriore sfortuna, totalmente preclusi. Oggi fortunatamente non è più così nella stragrande maggioranza dei casi: è stata una conquista faticosa ma ha costituito un grande balzo in avanti della nostra società civile e ci auguriamo che non venga abbassata mai la guardia.
Eppure, nonostante le innumerevoli difficoltà, non riesco ad immaginare una vita senza Raffa; senza quelle coccole che veniva a farsi fare nel mio letto quando, di sera, le abbassavo la spondina del suo letto, più piccolo, per fare in modo che potesse scendere; senza il ricordo di quei riccioli bruni che le tagliai, uno per uno, mettendoli in un bicchiere; senza quella volta che le feci raccogliere la palla caduta in un rigagnolo di acqua e lei, cadendo, si rovinò il vestito inamidato con suo grande disappunto (e non solo suo!); senza il ricordo delle escursioni in montagna con mio padre che la incitava a camminare e mantenere l’equilibrio in parti scoscese e lei ci riusciva e di quando volle togliere le rotelle di sostegno dalla bicicletta ed imparò a pedalare come tutti gli altri, ed ugualmente quando, bevendo e ribevendo acqua di piscina, imparò a nuotare.
Non posso dimenticare il periodo in cui è stata in una scuola audiofonetica per la riabilitazione, lontana da casa per molti mesi all’anno e per 5 anni, reggendo la nostalgia e la separazione, nonostante i suoi sette anni. Non dimentico la sua adolescenza, il suo modo di «copiarmi» nel trucco e nell’abbigliamento; non dimentico i suoi momenti di sconforto, i pianti che si trasformavano in risate non appena percepiva la nostra vicinanza e capiva che non era sola.
E così siamo arrivate oltre i settant’anni, con un progetto di vita ancora più vicine, un progetto iniziato da ormai molti anni e che ci ha molto coinvolte ma soprattutto ha permesso a Raffaella di capire che una vita è possibile anche senza i genitori, senza quel baluardo difensivo e protettivo costituito dalla famiglia di origine: è possibile una vita anche parzialmente autonoma, dove Raffa ha anche un potere decisionale, rapportato alle sue capacità. Ho ancora davanti agli occhi la sua espressione incredula ed il pianto incontenibile al quale si è lasciata andare il giorno che le ho mostrato l’a
ppartamento, contiguo al mio, nel quale abita: è cambiata la sua percezione di vita, ha capito che poteva farcela anche senza la mamma, che poteva contare anche su sua sorella.
E questo mi riempie di gioia.
Nunzia Miglietti
Cara Nunzia,
la sua gioia è la nostra, anche se la sua vale di più, poiché distillata attraverso l’esperienza diretta, l’apprensione, il dolore. E la vostra storia è giusto pubblicarla per intero, per rendere omaggio alla sua famiglia e, nel contempo, per indicare una via positiva a chiunque si trovi in una situazione simile.
I tempi sono cambiati, è vero, pure la sensibilità per fortuna si è affinata, ma ciò non toglie la fatica per chi affronta una diversità e lo scoglio di uno dei crucci maggiori: la preoccupazione per il «dopo di noi», per il futuro delle persone fragili quando chi se n’è sempre occupato non può più farlo. Per questo serve una «comunità», che è una famiglia a maglie larghe, estesa a tutte le persone di buona volontà e con senso di responsabilità. Se dunque avrà mai bisogno di una mano, non esiti ad alzare la sua. (g. bar.)
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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