Malattia e morte di Valeria: un invito a non mollare mai

Lettere al direttore
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Valeria, nome di fantasia, siede composta, sul capo indossa una parrucca, i cui capelli lunghi fino alle spalle sembrano naturali. Ogni ventun giorni si presenta per la terapia. Nella mia cerchia di conoscenti non ci sono persone con questo nome, mi ricorda una canzone di Enzo Jannacci degli anni ’70. Mantenere la giusta distanza, un imperativo, ma per qualcuno si avverte un’affinità, una predilezione innegabile, come un genitore verso un figlio. Di lei so poco, è una giovane donna, viene in ospedale sempre da sola, ed è impiegata presso uno studio di avvocati. Ogni volta, dandomi rigorosamente del lei mi chiede come sto, la sua gentilezza mi sorprende. La diagnosi, a causa del Covid, è stata tardiva e la malattia è in progressione; «triplo negativo», spesso dimentichiamo l’effetto dirompente delle parole, significa una riduzione delle chance terapeutiche. Mi torna alla mente una poesia di Baudelaire «La speranza come un pipistrello va sbattendo contro i muri la sua ala timida...» e senza spezzarsi ci mostra un diverso spettacolo, la cui credibilità è pari al sogno. L’obbligo della mascherina, ha nascosto il sorriso capace di risollevare l’animo dai nostri fardelli quotidiani, come una boccata d’aria. A tal proposito, Giovanna, un’anziana signora racconta nel suo dialetto: «So restada prope mal, l’è come se ma sares sbasat la saracinesca», una bizzarra metafora per descrivere la sorpresa di fronte al vero volto, senza veli e meno attraente del suo oncologo. Di Valeria posso scorgere solo i grandi occhi castani, truccati alla perfezione con una riga di eyeliner; veste sempre in modo sobrio: un paio di jeans, una maglietta o un maglioncino. I pazienti comunicano con il corpo, chi si presenta con colori sgargianti in tinta dagli orecchini alle scarpe, chi ostenta capi o borse firmate e vistosi orecchini; tutti si agghindano, scegliendo con cura gli abiti, un modo per mascherare la preoccupazione, la sofferenza. Durante la seduta se ne sta sempre in silenzio, osserva gli altri pazienti, ognuno inganna il tempo a suo modo: guardando un film al cellulare, ascoltando musica, sfogliando una rivista, pochi leggono un libro. Si improvvisano conversazioni, ogni argomento è valido, si scherza, si ride e a volte si rasenta il sarcasmo; il dolore rimane sullo sfondo. Il tempo si divide in due, quello dei controlli, delle attese, delle speranze e dello sconforto, e quello del mondo esterno con il cambio delle stagioni, degli odori, della luce, delle giornate più lunghe o più corte, delle vacanze. Valeria trascorrerà pochi giorni in montagna, non può permettersi di più. I medici consentono una breve tregua, per alcuni la vacanza è un’occasione da vivere appieno. Il Natale rappresenta una cesura tra un prima ed un dopo, una sospensione della realtà, una sovrabbondanza di tutto, tranne di ciò che si desidera veramente. Siamo a maggio, con il tepore delle giornate soleggiate e l’aria che profuma di gelsomino, la situazione di Valeria precipita. Viene ricoverata e a quel punto sorge il dilemma: vado o non vado a trovarla? È giusto farsi carico del paziente anche in questa fase? Il reparto è sullo stesso piano del day hospital e una mattina mi ritrovo lì, senza l’intenzione di cercare la sua stanza, sento chiamare il mio nome, indietreggio e intravedo una donna seduta a gambe incrociate con un computer appoggiato sul letto, ha una bandana in testa e non è truccata, non la riconosco. Entro nella stanza, chiedo come sta, quali sono i programmi futuri, un cambio di terapia, l’ennesimo, mi risponde. Per la prima volta la vedo senza mascherina, è pallida, un naso adunco ed affilato cambia completamente l’immagine che avevo di lei, senza sottrarre la grazia e la bellezza del viso, sta male. La saluto e la rincuoro con la promessa di rivederla nel day hospital, «certo altrimenti come fa lei senza di me?» aggiunge. Torno dopo pochi giorni, è seduta al tavolino davanti al computer, le chiedo se sta lavorando, lei annuisce dicendo: «Devo andare avanti, si deve pur vivere, no?». Nell’ultimo incontro è affaticata, piange, è la prima volta che si lascia andare, prima mai, la madre si è fermata per la notte, «se resto a casa, non riesco a dormire» dice. Il 29 maggio sono a Siviglia, apprendo da un messaggio whatsapp: «Valeria è morta la notte scorsa», in verità, nella tarda serata del 28 maggio, giorno del mio compleanno. La tecnologia ci raggiunge impietosa in ogni luogo ed in ogni momento. La morte, un salto nel vuoto, e se non ci fosse davvero niente dall’altra parte? Che fregatura sarebbe la vita! Provo a darmi una risposta, dopo aver ammirato la maestosa cattedrale di Siviglia, mi chiedo come è possibile che non ci sia un nesso tra tanta bellezza e la presenza del divino come guida ispiratrice? Nessuna certezza, ma la convinzione che «si deve pur vivere» sempre, anche nei momenti di estrema fragilità, un invito a non mollare mai, la vittoria dell’Essere sul Nulla.

Giuseppina Zaninelli
Ex infermiera Oncologia Spedali Civili Bs

Cara Giuseppina, sulla morte in cuor suo ciascuno prova a darsi una risposta. L’unica verità è che resta un mistero, per chiunque, senza prove o certezza alcuna, da una parte e dall’altra. Ecco perché della sua lettera teniamo caro il ricordo che fa della donna che lei chiama Valeria e che grazie al suo racconto rimane tra noi, viva. Pur se non riusciamo a toglierci dalla testa la sofferenza struggente e il vuoto nel petto di chi la piange ancora. Un dolore eterno, simile a un belato, una voce che non varia e che proprio per questo ci è «fraterno», come nella poesia di Saba». (g. bar.)

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