La sanità pubblica dal punto di vista dell'ultimo anello della catena
Ricominciare da zero nel mondo del lavoro richiede, anche ad un'età non proprio giovanissima, che si accetti di ripartire da ruoli di livello base, a maggior ragione se per ragioni familiari e personali il tempo che si vuole dedicare all'impiego è all'incirca quello di un part time. Decido quindi di ripartire da una «Borsa di Studio» che trovo sul sito di una struttura sanitaria pubblica. Ruolo: «data entry». Mi incuriosisce molto, mi informo sul profilo professionale, capisco a grandi linee che si tratta di gestire dati clinici di pazienti e inserirli nei data-base e il background scientifico pare darmi le competenze preliminari necessarie.
Consegno fototessera, stipulo l'assicurazione e prendo servizio. Non firmo nessun contratto, perché con mio enorme stupore, un contratto non c'è. Vale il bando, o meglio il suo titolo «Borsa di studio per data entry», dal momento che nel testo non compaiono dettagli di alcun tipo, coerentemente con la natura non subordinata della prestazione.
Lo scenario è fin dai primi giorni piuttosto incredibile: ufficio di 15 mq circa dove sono affastellati migliaia di faldoni, materiale per le spedizioni ma anche frigorifero, kit di provette e farmaci sperimentali. Mi si chiede di timbrare il cartellino in ingresso e in uscita a soli fini assicurativi, mentre i miei colleghi sono a tutti gli effetti i miei superiori e iniziano una sorta di formazione per trasmettermi tutto il sapere necessario.
Essendo fattivamente i capi, è con i colleghi che parlo di orari, ferie, malattia, sempre con un senso di assoluto smarrimento dal momento che di 4 persone di ruolo una sola è assunta, 2 sono precarie e una è borsista come me.
Non ci sono postazioni organizzate e divise, ma 5 scrivanie ad incastro con 2 telefoni centrali. In pratica la telefonata di uno è quella di tutti e per abitudine si commenta ogni fatto della giornata lavorativa ad alta voce e si mescolano le comunicazioni funzionali al lavoro con le chiacchiere, sempre rigorosamente ad alta voce.
Nel sentirmi già subito soffocata da un lavoro tecnico-amministrativo a tutti gli effetti, che pure si svolge in un ambiente confusionario e sempre concitato, stabilisco che la mia frequenza sarà di 20 ore settimanali al netto di qualche urgenza che potrei gestire da casa. I colleghi-capi però non sono d'accordo e inizia un complicato periodo di contrattazione dove mi si chiede di fare più ore, di fare i training necessari per l'utilizzo dei programmi da casa e di imparare il più in fretta possibile a svolgere tutti i compiti e le mansioni in capo alle altre 4 figure dell'ufficio (di cui due infermiere, 1 data entry e 1 data-manager).
Imparare quindi, nell'arco delle 20 ore settimanali su cui non intendevo negoziare, ad inserire dati, usare tutti i differenti tipi di portali per CRF, gestire la ricezione dei farmaci, gestire il controllo delle temperature, assegnare le terapie sperimentali, segnalare gli effetti avversi, compilare i documenti degli studi clinici, archiviare correttamente ogni documento di studio, processare i campioni biologici, gestire le spedizioni degli stessi, caricare sui portali gli esami diagnostici, ricercare nelle cartelle cliniche le informazioni richieste dalle aziende (e non continuo oltre perché si tratterebbe di un elenco lungo ancora una decina di righe).
I quattro mesi che seguono sono una montagna russa continua: la formazione è confusionaria, non sono pronta per fare da sola ma mi dicono che devo, sbaglio e vengo ripresa duramente, mi vengono assegnati compiti frammentati, devo saltare da una cosa ad un'altra e prendere in mano pratiche ferme da mesi, in un clima generale di frustrazione e sovraccarico. Se chiedo mi verrà risposto male, se vado via all'orario stabilito e resto sulle mie 20 ore sono una lavativa. Mi fa andare avanti solo il fatto che i capi-non capi dicono che sono in arrivo altri data entry e tutto migliorerà. Ma io continuo a trovare traccia nel computer e nei gestionali di almeno 5/6 nominativi di persone che mi hanno preceduto e che non sono resistite più di un anno.
A dicembre le persone arrivano, sono un esercito. Altri 3 data entry e 3 data-manager, ma dove saranno messi a lavorare se le postazioni sono 5 in tutto per 9 persone? Se si considera che i frigoriferi sono in 4 stanze diverse, i faldoni in altre 3 e i campioni si lavorano in un altro reparto, o i nuovi lavoratori staranno tutti nella stanza da 15 mq, oppure persone che per necessità dovrebbero lavorare insieme e sulle stesse fonti di documenti cartacei, saranno dislocate in 4/5 posti diversi, anche molto distanti tra loro. Non c'è nessuna prospettiva di una soluzione logistica all'orizzonte.
In questo scenario gli errori sono all'ordine del giorno, e piccoli o grandi che siano, di notevole o scarso impatto, è chiaro che non sono colpa di nessuno se non delle condizioni oggettive. Certo la terapia è garantita e il sistema ha dei meccanismi auto-correttivi, ciò non toglie che se io fossi il paziente non vorrei che a gestire la mia terapia farmacologica sperimentale ci fosse un borsista, nè un infermiere precario. In ballo c'è un pezzettino della mia esperienza di cura e non mi rende serena sapere che la sua pianificazione e coordinazione avviene in un ufficio dove le persone si parlano sopra, gestiscono problemi che non competono loro e trascorrono la giornata a fare concitatamente tutto quello che gli viene scaricato addosso sotto la pressione delle aziende farmaceutiche da una parte e delle performance necessarie al reparto dall'altra.
Ma non solo gli errori ed il carico in termini di pressione hanno ripercussioni sul servizio finale e sulla persona destinataria della cura, si ripercuotono inevitabilmente anche sul lavoratore stesso e sul clima che si respira. In altre parole un ufficio di borsisti non è fondato su una vera strutturazione, ma rappresenta un sistema degenerato verso l'auto-gestione, auto-determinazione ed infine autocolpevolizzazione. Perché dove non c'è un capo vero e dove non c'è garantismo ma solo auto-gestione, regnano sovrane le motivazioni personali, che hanno molto più a che fare con l'ego, la rivalsa, la passione, l'estro, l'abilità tecnica, e tutta una serie di attitudini personali che nulla possono a fronte della necessità di una persona qualificata e selezionata per dirigere il lavoro altrui, assorbire lo stress del team e dirimere sapientemente le questioni che insorgono.
Così l'ultimo anello della catena comprende che non c'è speranza e se va, buttando via 4 mesi di formazione e di risorse, sue personali ma anche del sistema. Considerando i due anni precedenti, è il borsista rinunciatario n.8 (nel frattempo anche una delle nuove risorse arrivate ha già dato le dimissioni) e lascia il posto a nuovi borsisti che, complice il malinteso della borsa di studio senza contratto, arriveranno con le più disparate idee e inizieranno il loro percorso all'oscuro di quello che li attende.
Ma i capi, quelli veri, lo sanno? Premesso che il sistema li rende chiaramente indisponibili perché dedicati ad altro, la risposta secondo me è questa: quando un capo sembra non voler sapere, significa in verità che sa già tutto, ma che non crede di avere margini per una soluzione. Significa, in altre parole, che il sistema sta in piedi a Borse di Studio e che se dovesse bandire, anziché un concorso per 6 borsisti, uno per 1 dirigente e 2 dipendenti, formati e competenti, oltre che dover offrire un contratto vero, con tutti gli oneri del caso, dovrebbe anche e soprattutto fornire loro i mezzi, cioè trovare le stanze che non ci sono, gli strumenti tecnici e tecnologici, il passaggio all'informatizzazione, garantire l'aggiornamento, le facilitazioni ecc. Perché se lo scudiero accetta di andare a combattere con una pentola in testa a fare da elmetto, il combattente professionista chiederebbe quantomeno un cavallo e un'armatura corazzata per affrontare le sfide del settore della ricerca clinica sperimentale con una qualche possibilità di buona riuscita.
Allora penso al primario, che si muove entro limiti di budget economico estremamente chiari: mi pare il suo un ruolo così medico e così poco strategico da ritenerlo probabilmente estraneo a qualsiasi riflessione sul malfunzionamento. Ma per quanto concerne il direttore generale, invece, seppure sia chiara l'inadeguatezza di mezzi forniti dallo stato al sistema sanitario pubblico, possibile che non abbia lo spazio per qualche manovra correttiva a fronte dell'enorme impatto che la gestione di alcuni settori dimostra di avere sul risultato qualitativo finale?
Naturalmente a fronte di una domanda provocatoria lo scopo di questa lettera non è quello di suggerire facili soluzioni, ma solo quello di condividere una fotografia del più piccolo ufficio di reparto, scattata dall'ultimo anello della catena, ormai già solamente cittadino preoccupato e professionista disilluso e amareggiato.
Lettera firmata
Carissima,
rispettiamo l’anonimato, impegnandoci nel contempo a dare un seguito di cronaca alla vicenda che segnala, poiché – al di là del caso in sé – racconta uno spaccato del sistema. Che poi si tratti del sistema sanitario è un motivo in più per occuparsene, non lasciando zona d’ombra alcuna. Se le carenze organizzative (non avere un capo, operare in una sorta di autogestione, usufruire di spazi incongrui…) sono esperienze stigmatizzabili, ma comuni a molti, che invece si utilizzi lo strumento della «borsa di studio» in modo improprio è assai grave nel settore privato e inaccettabile allorché il comparto è quello pubblico.
Giorgio Bardaglio
P.S. La chiave di ogni luogo di vita, non soltanto di lavoro, è il principio di responsabilità. Lei ha dimostrato di averlo ed è per questo che non è «l’ultimo anello di catena», bensì il primo.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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