Invisibili e carcerati messi a confronto (senza semplificare)

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Dopo avere letto l’accorato intervento della lettrice di alcuni giorni fa sui soggetti «invisibili» e la notizia degli investimenti stanziati per migliorare le carceri mi sono posto un quesito: la vita da carcerato tutto sommato può essere considerata migliore di quella di milioni di cittadini onesti che, secondo le notizie che arrivano dai media, vivono in condizioni di assoluta povertà che li costringe a «scegliere tra curarsi e mangiare»? Se a questi cittadini «censiti» aggiungiamo i senzatetto, i cosiddetti «invisibili» appunto, il numero di persone che vivono in condizioni estreme è enorme e non accettabile in una società moderna, anche se pare a pochi importi la loro condizione di vita. Infatti, molti auspicano e/o pretendono sia tutelata la dignità dei carcerati, ma solo pochi si preoccupano di cercare almeno di alleviare le condizioni di disagio estremo degli invisibili. I carcerati non devono trovare riparo dietro fogli di cartone: hanno un tetto, anche se limitato; non devono fare la coda ai centri di assistenza per avere qualcosa da mangiare; non devono scegliere tra mangiare e farsi curare, perché per loro l’assistenza è assicurata; possono studiare durante la detenzione fino a laurearsi senza spendere un centesimo... Si può arrivare al punto di pensare anche ci sia una possibile quanto assurda spiegazione a quanto accade e si legge ogni tanto: persone che vengono fermate e condannate per l’ennesima reiterazione di un reato con la certezza che se va loro bene ne hanno un guadagno e, male che vada, hanno «tetto e cibo assicurati». Spiegazione al limite dell’assurdo appunto, ma che potrebbe essere una delle giustificazioni al sovraffollamento delle carceri ed alla reiterazione dei reati. Sarebbe buona cosa, per una Società civile, preoccuparsi non solo della tutela della dignità dei carcerati, che alla fine hanno commesso reati contro di essa, ma anche delle condizioni estreme di vita degli invisibili, molti dei quali nemmeno sanno più che significhi «dignità», costretti ogni giorno a cercare un modo di sopravvivere, anche grazie allo sparuto numero di persone che volontariamente e nel quasi anonimato li aiutano a farlo.
Angelo Angoscini
Brescia

Caro Angelo,

soltanto nel mondo delle fiabe, dove tutto è semplice, il suo ragionamento non farebbe una piega. Nel concreto della vita, al contrario, le pieghe sono più d’una. Visto da fuori infatti il carcere può esser ridotto a un tetto sulla testa e cibo nella pancia, chi lo vive o la ha vissuto sulla propria pelle sa invece quanto annientante è la privazione di libertà, l’impossibilità di decidere per sé anche le azioni più banali, l’esercizio di quella che chiamiamo «dignità umana». Comprendiamo dunque la sua buona fede e il riguardo che chiede a favore degli invisibili, ma non è drenando attenzione dai carcerati che si raggiunge la meta. Evitiamo dunque di considerare differenti le due condizioni, come se una fosse migliore dell’altra: in realtà sono i due volti di una disperazione identica. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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