Il rito contadino dell’uccisione del maiale

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Il tradizionale arrivo della Fiera di Lonato fornisce l’occasione per ricordare, avvenimenti e usanze di tempi che rischiano di perdersi nelle nebbie della memoria. Ed è proprio in uno di questi momenti di più intensa rivisitazione che nella mia mente è affiorato dai primi anni Cinquanta un fatto sanguigno e sanguinario, certo aborrito da animalisti, che nei tempi è stato da molti narrato con poesia, ribrezzo o piacere. Il mio, niente di tutto questo ma solo un nostalgico ricordo di me, ragazzo, sorpreso e preoccupato al sentire la truculenta frase: «Ammazziamo il maiale! (copom el porsel)» che veniva sostituito anche dal meno tragico «fom sö el porsel». Pagato il Dazio al competente ed occhiuto ufficio, questa era una bella notizia che veniva comunicata, foriera di feste per il palato. Non lo era per la vittima predestinata che rammento di aver sentito guaire, lamentarsi e forse piangere quando veniva trascinata al punto dell’ammazzamento sito al centro della corte. Piangeva anche mio zio che lo aveva amorevolmente allevato ma che si aspettava, ovviamente, grandi cose da quell’evento sicché sulla sua commozione e sull’imbarazzo dei presenti prevalevano chiaramente il bisogno, la fame, il piacere e la prospettiva di nutrire adeguatamente le famiglie ben oltre l’inverno. Ho assistito una volta sola al fatto cruento dell’uccisione del maiale e poi mi sono detto «mai più». Legato, spinto, strattonato, con urla strazianti l’animale finiva la sua esistenza per mano del «copadur» ovvero l’ammazzatore, ma talvolta anche colui che faceva i salami; quegli, se bravo, con micidiale precisione assestava alla bestia un colpo deciso nel bel mezzo della fronte mediante una mazza in ferro dotata di una letale punta curva. Non voglio pensare cosa sarebbe successo nel caso di imperizia del «boia» e mi consola anche sapere che allora, e nei tempi successivi, il fatto sia avvenuto ed avvenga in modo meno tragico e violento. Ricordo che i «copadur» erano delle celebrità, prenotati con anticipo, contesi come le attuali star dello sport e si faceva a gara per avere i migliori, legati da contratto verbale , magari pluriennale. Dopo il truculento evento dell’uccisione, iniziava l’opera di smembramento dell’animale, cosa che non ho mai voluto vedere se non nella fase finale della trasformazione delle carni in salsicce (filsete), salami, cotechini, oss de stomech e via dicendo fino alle «grepole» (ciccioli) che, preparate dalle massaie con varie ricette, trovavano anche me in prima fila come giovane assaggiatore. Si sa, nulla andava perso del maiale, dalle orecchie al codino e dalla morte di quell’animale, materiale sostegno di povere genti, molti prendevano energia per affrontare la lotta quotidiana per la sopravvivenza nei difficili anni Cinquanta. Noi semplici non sapevamo ancora cosa fossero sushi e glutine. Ammazzare il maiale era occasione di reciproco aiuto, di incontro e di riunioni di famiglia ed amici perché con i primi assaggi, in compagnia della immancabile polenta e di un robusto vino rosso bevuto spesso dalla scodella, la sera si raccontavano reciproche esperienze e risultati: il peso vivo della bestia, la qualità della carne, le dimensioni del baldacchino con i freschi insaccati appesi ad asciugare e gocciolare in un locale adatto, la bontà delle «grepole», i diversi modi di creare l’impasto (empiöm), i dosaggi di sale, aglio e vino, la qualità del budello e via dicendo, senza mai rivelare i trucchi che ogni «copadur» teneva per sé. Negli anni successivi coloro che avevano perso la possibilità di allevarsi il maiale, lo acquistavano dal contadino in comproprietà, vivo o morto, in parti più o meno grosse (un quart, mes quart) affidando al copadur la scelta del luogo adatto per fare quel lavoro «sporco». Ciò consentiva di installare anche nelle cantine più o meno adatte, il famoso baldacchino, più modesto, ma sempre apprezzato. In mancanza lo si lasciava nella cantina del contadino per le cure amorose dei primi tempi di asciugatura e stagionatura, non senza aver contato e contrassegnato i salami e non trascurando di passare, ogni tanto, per un controllo della stagionatura, per ammirare il piccolo tesoro e per verificare che nulla fosse venuto... a «mancare». Ladruncoli vicini e lontani, per fame o mestiere, stavano sempre sul chi va là , interessati ai salami oltre che alle galline. In tempi successivi affidarsi all’amico contadino ed al copadur per avere del proprio salame, da mangiare ma anche per menarne vanto con amici e parenti, è stato - per quanto possibile - un modo come un altro per spezzare il filo con la produzione industriale, pur sempre necessaria e meritoria, e per consentirci di continuare il nostro personale racconto di quello che eravamo e, purtroppo, non siamo più.

// Eugenio Scalvini

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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