Droni su Brescia il «falso» baratto fra sicurezza e libertà
Desidero condividere una riflessione sull’articolo pubblicato il 15 giugno intitolato: «Alla Locale nuovi infiltrati speciali: da dicembre droni in volo sulla città». Grande è la superficialità con cui viene affrontato il tema, e mi ha colpito la passività con cui noi cittadini prendiamo atto di tali novità. La domanda di fondo è semplice: vale la pena essere sottoposti alla videosorveglianza di droni perché questi «vigilino sulle aree dismesse, sugli incidenti stradali, sui centri di accoglienza, controllino abusi edilizi e aiutino le operazioni anti spaccio?». Non so in quanti se lo siano chiesto ma personalmente rispondo no. Quando viene messa in atto una vigilanza di questo tipo, è impossibile restringerla a specifici individui o campi ma inevitabilmente intacca qualsiasi aspetto dell’area sotto sorveglianza. Riprendendo il pensiero dell’informatico Jacob Appelbaum, viviamo in un mondo in cui ciò che chiamavamo libertà oggi coincide con la definizione di privacy. Ed è noto che ultimamente di privacy ne abbiamo sempre meno; basti pensare semplicemente alle «circa settecento telecamere» che sorvegliano la città, oppure molto più in grande alle politiche di sorveglianza di massa rese note dai cosiddetti whistle-blower (in italiano gola profonda, informatore) tra cui Edward Snowden. Quando perdiamo privacy perdiamo libertà. Ritengo fragile la tesi secondo cui sia necessaria una maggiore sorveglianza per il bene del cittadino: cos’è questo tipo di sorveglianza se non controllo? Un estratto dell’articolo recita poi: «... (i droni) non potranno, se non per i rari casi specificati nell’apposita normativa, passare sulla testa delle persone». La questione fondamentale è capire se la legge sia arbitro imparziale di ciò che succede, ovvero di come vengano utilizzati strumenti come droni, telecamere di sorveglianza e intercettazioni telefoniche. La nostra democrazia ci tutela in maniera adeguata da chi dovrebbe proteggerci? Molto spesso quando si discute il tema della cybersorveglianza, mi capita di sentire «... tanto non ho nulla da nascondere». È un’affermazione rassegnata e indice di un mezzo pensiero, l’invito è di completarlo: come risolvere il problema? Intendiamo proseguire così senza interessarcene? Non è impensabile (ed è già capitato) uno scenario in cui una persona che si trovi a sua insaputa presso un luogo del crimine, venga intercettata o ripresa e per colpa di un’analisi approssimativa venga tenuta sotto osservazione speciale o indagata senza aver commesso il fatto. Il discorso si riconduce a una questione di trasparenza e proporzionalità. La prima perché deve essere chiaro e appunto trasparente il modo in cui un comune cittadino è posto sotto sorveglianza. La seconda perché a questo tipo di operazioni bisogna porre limitazioni nel rispetto dei diritti della persona e al contempo evitare di sprecare risorse sull’uomo comune ma prestare particolare attenzione a chi occupa i piani alti della società e le posizioni di potere. In conclusione, che vengano introdotti 1,10 o 100 droni non è fondamentale; per principio vedo questa novità come un’ulteriore privazione della nostra privacy e penso che tornare indietro sarà sempre più difficile.
// Simone MolgoraBrescia
Condivido l’analisi e anche l’inquietudine: stiamo barattando la sicurezza con la libertà senza domandarci se davvero la seconda (meno libertà) è moneta sufficiente a garantirci la prima (più sicurezza). La questione, come osserva il lettore, non è tanto droni sì o droni no. Dopo i bracciali, le telecamere, i droni... cosa ci aspetta? Si rischia di innescare un circolo vizioso che alla richiesta di sicurezza sempre più pressante risponde con la continua perdita di pezzi di libertà. Senza peraltro riuscire a garantire il raggiungimento dell’obiettivo iniziale. Urge individuare un approccio nuovo. (n.v.)
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato