Dove la scienza non arriva, deve arrivare il cuore

Lettere al direttore
Lettere al direttore
AA
Sono padre di una bambina di nome Vittoria di quasi tre anni affetta da una sindrome genetica ultrarara denominata Zard (ZC4H2 associated rare disorder). Una microdelezione, non ereditaria, di un gene le causa un’impossibilità motoria molto grave. Mia figlia è destinata a non potersi muovere e a non avere capacità intellettive che le permettano una vita autonoma. La storia di questa diagnosi inizia il giorno della sua nascita presso il reparto di Ginecologia degli Spedali Civili di Brescia in cui mia moglie, ricoverata per un parto cesareo d’urgenza, dà alla luce Vittoria. Io in sala d’attesa quella notte ricevevo l’emozione di diventare padre per la prima volta. Ma immediatamente qualcosa bloccava le mie emozioni: un medico di guardia mi disse che qualcosa non andava in Vittoria e avremmo dovuto fare degli accertamenti. Cercai di non pensarci e di dare invece supporto a mia moglie che aveva appena subito un intervento dopo 9 mesi in cui portava in grembo un essere umano. Il giorno seguente iniziò una sequela di affermazioni dietro le quali i dottori si nascondevano: «Stiamo facendo delle analisi». Io non potevo entrare in ospedale, limitato dagli orari di visita. Mia moglie era in camera con un’altra mamma che invece poteva stringere il suo bambino appena nato. Purtroppo la natura non sempre è clemente e non tutti possiamo ricevere il destino che ci aspettavamo. Il giorno seguente nella camera entrava una dottoressa e comunicava a mia moglie che qualcosa non andava, la bambina presentava tratti sindromici e avrebbero dovuto fare degli accertamenti. Il tutto accadeva in presenza di una persona completamente estranea, seduta sul letto contiguo, alla faccia di qualsiasi condotta di corretta privacy. La sera stessa mi recai a fare visita e ci venne fatta vedere Vittoria. Non avevo mai stretto un neonato fra le mie braccia e sapere che fosse sangue del mio sangue mi riempiva di gioia. Ma gli atteggiamenti dei dottori mi facevano capire che qualcosa non andava, ma per il momento non ci veniva detto null’altro. Il giorno seguente non potendo entrare in ospedale, se non negli orari di visita serali, decidevo di proseguire con la mia attività lavorativa e di liberarmi il pomeriggio per poter tornare a trovare le mie donne in ospedale. Sono un chirurgo orale e quel giorno dovevo eseguire degli interventi nella mia clinica privata. L’anestesista aveva sedato il paziente quando una delle segretarie entrava in sala chirurgica, dicendomi che ero richiesto al telefono della clinica. In 18 anni che faccio questo lavoro mai mi era capitato, anche perché solitamente vengo contattato sul telefono cellulare. Capivo quindi che il problema era grave. Al telefono mia moglie piangendo mi pregava di raggiungerla all’ospedale, poi mi passò una dottoressa che mi disse testualmente «sua figlia non è normale, non ha visto anche lei che c’è qualche problema? Se viene qua subito le spiego». La mia situazione non mi consentiva di lasciare la sala operatoria e dunque procedetti con l’intervento nonostante i pensieri che mi trafiggevano. Recatomi i n ospedale il prima possibile la dottoressa non c’era più e mi venne riorganizzato un incontro per il giorno dopo. All’incontro si presentarono una decina di persone tra medici, ostetriche e psicologa. La genetista accolse me e mia moglie dicendo: «Partiamo dalle cose positive: il cuore e i polmoni di Vittoria stanno bene. Adesso passiamo a quelle negative: Vittoria presenta segni di una sindrome genetica grave che dobbiamo indagare approfonditamente». Da qui iniziò una serie infinita di accertamenti che dopo un anno circa portò alla diagnosi della sindrome di cui è affetta Vittoria, comunicata dalla genetista telefonicamente a mia moglie. Non entro nel merito della competenza medica degli operatori pre e post parto: non sempre le cose nella vita vanno come vorremmo. Spesso la scienza non risponde alle nostre problematiche e mai riuscirà a farlo completamente. La domanda che invece mi pongo quotidianamente da quel lontano 8 Settembre 2021, giorno in cui è nata mia figlia, è «ma dove non arriva la scienza, non potrebbe arrivare il cuore?». Ogni giorno curo pazienti. Ogni giorno mi trovo a dover dare delle brutte notizie a persone sul loro stato di salute orale e solitamente sono situazioni assolutamente risolvibili. Nella bocca tutto è più facile. Ma le considero come se in quel momento fosse il problema più importante per il paziente che ho davanti. E anche il mio problema più grande. Come se fossi io il paziente che deve ricevere queste notizie. Cerco di trovare le parole migliori per dare delle sentenze mediche e far sentire anche ai pazienti la mia vicinanza al loro stato emotivo. Ho voluto fare corsi specifici per arrivare a questo punto e lavoro su me stesso quotidianamente. Che venga eseguita una terapia medica al meglio delle mie possibilità la do per scontata. Ma è tutto il resto che fa la differenza, soprattutto se la scienza non può andare oltre. Insisto molto coi miei collaboratori per far loro mettere nei panni del paziente ed avere allo stesso piano l’atteggiamento di cura medica così come l’attenzione comunicativa ed emotiva. Quando nel 2007 ho fatto il giuramento di Ippocrate ho testimoniato «di rispettare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che osservo o che ho osservato, inteso o intuito nella mia professione o in ragione del mio stato o ufficio» e «di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona cui con costante impegno scientifico, culturale e sociale ispirerò ogni mio atto professionale». Quindi perché davanti ad un problema così grave come la nascita di una bambina con gravissimi problemi di salute che condizionerà la sua vita e quella delle persone che le amano, non sono state usate delle semplici accortezze di comunicazione che considero basilari? Perché le informazioni a distanza di meno di 24 ore dalla sua nascita sono state date alla madre in presenza di sconosciuti? Perché in maniera brusca telefonicamen te una dottoressa mi ha comunicato che mia figlia «non è normale»? Potrei fare tanti altri esempi di situazioni comunicative simili che sono avvenute e che avvengono quotidianamente nell’ambito sanitario nei confronti della cura di mia figlia e di noi parenti. Sarebbe bastato molto poco. Questa mia lettera non vuole essere un atto di critica solo per sfogo, ma vuole essere un modo per comunicare il dolore che abbiamo provato e che nessuno potrà lenire e che forse sarebbe meglio evolvere l’atteggiamento medico verso una capacità comunicativa che permetta di curare non solo una persona ma anche il suo cuore che spesso è quello che soffre di più nella malattia e dove a volte basta veramente poco. Ed è attraverso queste mie parole che, sperando non finiscano nel dimenticatoio, altre persone che avranno la sfortuna di avere una figlia gravemente malata fin dalla nascita, ricevano un trattamento diverso, evitando così che si aggiunga dolore ad un cuore già spezzato.
Dott. Federico Marsili

Caro Federico,

è una lunga lettera, ma merita di esser pubblicata per intero.

Per chi si fa scivolare addosso tutto e scalfire da niente, diciamo nulla: fin qui non saranno nemmeno arrivati.

Tutti gli altri invece siamo certi proveranno per lei e per sua moglie la commozione che avvertiamo noi.

Un sentimento che non può restare fine a se stesso, ricordandoci che - anche se non siamo medici - in mille circostanze quotidiane abbiamo la possibilità di scegliere come comportarci. E che «metterci nei panni» non è un dono, bensì una decisione continua, una disposizione. L’unico modo, tra l’altro, di dimostrarci ogni giorno «umani». (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo