Dodici nuove (e vecchie) povertà del nostro mondo

Incontro Caritas
Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Avendo avuto l’opportunità di partecipare all’incontro promosso da Caritas Diocesana, sabato 14 a Castegnato, che ha visto la partecipazione di oltre duecento volontari della nostra provincia, ho potuto ascoltare l’intervento della direttrice del GdB, Nunzia Vallini, sul tema che le è stato assegnato «Poveri e Povertà - quali poveri incontro».

Senza dilungarmi in parole che possono essere inutili ma lasciando ai molti lettori la stessa opportunità di riflessione che hanno avuto i partecipanti ascoltando il suo intervento, sono a chiedere di dedicare uno spazio del giornale pubblicandolo. Aiuterebbe molti a superare l’idea che la Caritas non è solo distribuzione di alimentari e che le povertà emergenti sono numerose e complesse e necessitano di impegno che vada oltre la semplice distribuzione di un pacco seppur necessario.

Ricordando l’immagine della Caritas proposta dal vescovo aprendo l’incontro: «Siate una candela (fiammifero) per il camino della casa», dove la candela (Caritas) serve per accendere/alimentare le comunità parrocchiali (il camino) nel mondo (la casa).
Laura

Cara Laura,

neppure noi ci dilunghiamo, lasciando voce - come richiesto - a quanto detto dalla direttrice. Non qui però, che lo spazio su carta è limitato e assai corposo l’intervento, bensì sul sito internet del GdB, dove ne pubblichiamo la versione completa. Per i lettori della nostra rubrica, invece, ecco il sintetico elenco delle forme di povertà, antiche e nuove. Che la povertà, al pari di tutte le vicende umane, non è fissa, bensì mutevole, cangiante. E per scovarla, descriverla, combatterla, occorre prima darle un contorno e un nome.

1. Povertà economica: è la prima, la più evidente. Fa riferimento ai bisogni primari. Si stimano in 700 milioni le persone che vivono in condizioni di estrema povertà nel mondo. A centinaia anche vicino a noi, con grandi difficoltà nell’accesso a cibo, alla casa, al lavoro, alla salute. È questa una povertà che conoscete bene quando distribuite coperte ai senza tetto, date un pasto caldo a chi ne ha bisogno, consegnate pacchi viveri o aiutate a pagare le bollette di chi non riesce ad arrivare a fine mese.

E l’orizzonte non è roseo: siamo un paese che «galleggia» dice il Censis. Che avverte: anche il ceto medio si sta impoverendo: negli ultimi 20 anni il reddito pro-capite si è ridotto del 7% e la fetta di popolazione a rischio nuove povertà è pari al 18,9%, contro una media Ue del 16,2%. Questa è una povertà misurabile. Come è misurabile la povertà ambientale che dovrebbe meritare un capitolo tutto suo ma che inserisco per ragioni di narrativa: è una povertà che fa riferimento all’utilizzo delle risorse naturali e che ci riguarda tutti. Stiamo diventando sempre più poveri, proprio come il pianeta terra: consumiamo troppo, produciamo tanto e distribuiamo male.

Papa Francesco ce lo ricorda: la povertà non è solo una questione economica, ma è anche un’affermazione di dignità. Che - come tale - ha tante sfaccettature

Esploriamone alcune:

2. Povertà educativa e culturale: La carenza di accesso a un'istruzione di qualità, che impedisce alle persone di sviluppare competenze limitando le opportunità di lavoro oltre che la crescita personale, creando una spirale di disuguaglianze. E’ deficit di opportunità, di pari opportunità. Perché ancora oggi l’accesso alla scuola e alla cultura non è di - e per - tutti.

Nelson Mandela diceva che «l’educazione è l’arma più potente che puoi usare per cambiare il mondo». Disattenderla significa impedire la crescita personale, la comprensione delle diversità e anche l'arricchimento del pensiero collettivo.

3. Povertà di pensiero: senza scuola e cultura adeguate la ricaduta primaria è la mancanza di pensiero puro e di pensiero critico. In un mondo dominato dalla rapidità delle informazioni ma ahimè anche dalla loro superficialità (ne parleremo tra poco), la povertà di pensiero, unitamente a quella culturale, condiziona fortemente la capacità di prendere decisioni informate, consapevoli e responsabili, alimentando invece pregiudizi, discriminazioni, omologazioni e polarizzazione sociale.

E’ una «povertà di senso» - che potremmo definire anche «povertà di spirito» - di visione capace andare oltre. Ci priva di un orizzonte trascendente che dia scopo e direzione alla vita.

E’ evidente come la carenza di senso abbia effetti devastanti in ciascuno di noi. Porta ad un senso di vuoto, disorientamento, di intima desertificazione.

4. Povertà di giustizia: non è solo osservanza delle leggi. Come è stato giustamente osservato in un recente dibattito in occasione della presentazione di un libro intitolato appunto «La giustizia», nel nome della legge sono state anche commesse atrocità. Dunque per essere giusta, la giustizia deve essere soprattutto umana. Equa ed umana. La povertà di giustizia infatti nasce dalla negazione dei diritti fondamentali, dall’ingiustizia sociale.

«Non c’è pace senza giustizia», diceva Martin Luther King

5. Povertà di pace: basta guardarsi attorno, in questa … terza guerra mondiale a pezzettini. Eppure la povertà di pace non è solo nel mondo, ha anche un orizzonte più ristretto: è nelle nostre città, nelle nostre famiglie, è dentro di noi. E’ laddove non c’è armonia: con gli altri ma anche in noi stessi, incapaci come siamo di gestire conflitti, di fare pace. Di essere pace.

Nelson Mandela diceva: «se vuoi fare pace con il tuo nemico, devi lavorare con lui». Perché la pace non è statica, è un processo, un impegno sincero e soprattutto costante. Da rinnovare di continuo.

6. Povertà di tempo: In un mondo che corre sempre veloce, la povertà di tempo è una realtà per molti di noi: la costante pressione del lavoro, delle responsabilità, delle aspettative sociali….

Seneca però avvertiva: «non è che abbiamo poco tempo, ma è che ne perdiamo molto».

E’ allora una questione di scelte, di priorità, di capacità di dare una gerarchia di valore a quello che facciamo o che vogliamo fare. La mancanza di tempo si badi bene produce anche mancanza di pensiero nobile, di ricerca di senso…a riprova che tutte queste povertà sono concatenate tra loro: ne vivi una e ne pigli almeno altre tre.

7. Povertà affettiva: E la mancanza di amore, di connessioni emotive, di sostegno affettivo. Si tratta di una povertà che non è fisica, ma che ha un impatto profondo sul nostro benessere, sulla nostra salute mentale. È spesso legata alla solitudine, alla mancanza di relazioni significative. Alimenta l’isolamento, l’avvitamento. E’ povertà di sorrisi, di gioia. Amore che dai, amore che ricevi:

8. Povertà di empatia: La difficoltà a mettersi nei panni degli altri, a comprendere le emozioni e le esperienze degli altri. Questa povertà porta a una società sempre più individualista, meno solidale, dove la comprensione reciproca diventa merce rara. Così come merce rara è la capacità di ascolto, prerequisito principale dell’empatia.

9. Povertà di politica, quella con la P maiuscola, al servizio del bene comune, della giustizia. Politica invece sopraffatta da logiche di potere, interessi di parte, stritolata dalla logica del consenso immediato e priva di visione e lungimiranza. Priva di coraggio (che merita riflessione a parte).

Pietro Calamandrei, uno dei padri costituenti, ci dice che «la politica è una delle forme più alte di carità, perché è una carità che non è solo nel cuore, ma si traduce in azioni concrete per migliorare le condizioni di vita delle persone».

È la politica del servizio, minata appunto da un’altra povertà, che non è certo prerogativa della politica e dei politici ma che ci affligge un po’ tutti:

10. Povertà di coraggio: quante volte per paura o per fatica rinunciamo a qualcosa, a cambiare, a lottare per ciò che pure riconosciamo giusto. Ci abbandoniamo alla rinuncia e talvolta addirittura scegliamo di voltarci dall’altra parte al limite della codardìa.

Albert Einstein diceva che “può dirsi davvero ricco solo chi ha il coraggio di affrontare il futuro con speranza, anche nelle avversità”. Eh sì, c’è anche una povertà di speranza, strettamente legata da un lato alla povertà di coraggio; dall’altro alla già trattata povertà di senso.

Nell’avvicinarmi alla conclusione vorrei dedicare qualche minuto ad un’altra povertà emergente, che mi interessa anche professionalmente i cui effetti non siamo ancora in grado di misurare ma che alla lunga sono destinati a rivelarsi devastanti:

11. Povertà di linguaggio: non solo per il sempre più compromesso linguaggio costruttivo che sembra essere diventato addirittura fuori luogo, fuori tempo. Con dati auditel e algoritmi che premano insulti e litigi, non certo della qualità della comunicazione. Vale per tv e social ma anche per la carta stampata, che trascinata da questa tendenza a sua volta rilancia parole e stili da curva da stadio. C’è di più: ci stiamo abituandoci le frasi lapidarie. Argomentare è sempre più faticoso e lo facciamo sempre meno volentieri. Una tendenza che rende minimale il modo di comunicare riducendo la ricchezza lessicale e quindi anche la capacità di argomentare le complessità, di cogliere le sfumature. Ora, non vuole essere un processo ai nuovi media: ci mancherebbe, ne riconosciamo potenzialità e opportunità. Ma un recente e interessante studio dell’Università Sapienza - che analizza 300 milioni di commenti provenienti da 8 piattaforme diverse, dal 90 ad oggi, quindi 34 anni di fenomeno – avverte: il linguaggio sempre più semplificato incide negativamente sulla qualità del dibattito pubblico.

La povertà del lessico – unito alla polarizzazione dei contenuti - limita dunque la capacità argomentare pensieri, emozioni, idee, di costruire ponti. Dunque la comunicazione come elemento di confronto e perché no, di ricerca di elementi che uniscono, diventa invece terreno di divergenze che si acuiscono, diventano sempre più ampie.

E siamo all’ultima povertà, quella che spesso non vediamo neppure. Non la vogliamo vedere.

12. Povertà di onestà: si badi bene, non nel senso della legalità che abbiamo già in parte affrontato. Mi riferisco a quella che chiamiamo «onestà intellettuale» intesa come conoscenza di sé, intima franchezza, consapevolezza tra noi e noi, anche quando ci piacciamo poco e siamo portati a mentire a noi stessi, a raccontarcela…

Perché quel pentolino, che pure ci è appiccicato addosso, preferiamo non vederlo. E guardiamo a ciò che ci circonda con una lente falsata, deformante.

Il grado di distorsione diventa direttamente proporzionale alla sommatoria di tutte le povertà elencate (e le altre che per ragione di sintesi non abbiamo menzionato, ma che pure hanno un peso) che ci riguardano, chi più chi meno. Perché tutti abbiamo il nostro – o i nostri – pentolini. Ma ce la raccontiamo. E vediamo sempre e solo quelli degli altri.

Proprio come Antonino, povero lui!

Aiutarlo è cosa buona e giusta, ci mancherebbe.

Ma mi chiedo e vi chiedo: è sufficiente?

No, non più.


Di quest’ultima, lo sviluppo del discorso, precisa che non si tratta di quella legale, che pure deve esserci, bensì dell’onestà intellettuale «intesa come conoscenza di sé, intima franchezza, consapevolezza personale, anche quando ci piacciamo poco e siamo portati a mentire a noi stessi, a raccontarcela...».

In questo senso, aggiungiamo noi, nessun’altra pagina più di questa, delle lettere, costituisce un vaccino. Perché noi, pur in buona fede, possiamo «raccontarcela» come vogliamo, ma soltanto la relazione continua, costante, con lettori e lettrici, fa tenere i piedi per terra e apre la mente alle ragioni dell’altro. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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