Che bello quando per la pioggia bastava la cerata

Lettere al direttore
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Negli anni cinquanta, a scuola si andava a piedi o in bicicletta. Sia che tu avessi sei o dieci anni. Sia che piovesse o che ci fosse il sole. In caso di pioggia, si aggiungeva solo un indumento, si indossava la mantellina cerata e gli stivaletti di gomma.

Nei giorni piovosi, in prossimità della scuola, poco prima dell’inizio delle lezioni era tutto un fluire di un piccolo esercito variopinto di «soldatini» colorati, ognuno con addosso la propria cerata.

Nessun dramma. Nessuna mamma si sognava, per quanto potesse essere violento l’acquazzone, di accompagnare il proprio figlio a scuola, si partiva, come ogni giorno, dall’aia della cascina, nel solito allineamento, i più grandi davanti i più piccoli dietro e con una rigorosa «separatio cromosorum», femmine da una parte, maschi dall’altra.

Anche le chiacchiere erano le stesse, che piovesse o ci fosse il sole («cos’hai nel panino per la ricreazione», «hai un pennino nuovo perché l’ho rotto» etc.), solo un po’ più rarefatte per la presenza della pioggia che ci obbligava, comunque ad una maggiore concentrazione nel percorso.

Non avevamo orologi. Quello avuto in regalo per la Prima Comunione o per la Cresima, lo si metteva al polso solo la domenica, eppure, a scuola, sole o pioggia, si arrivava sempre in orario. La pioggia era un evento naturale che non modificava sostanzialmente le nostre abitudini.

Al rientro da scuola, nulla cambiava, solo qualche elemento di discussione in più, durante il tragitto, se qualcosa fosse capitato durante le lezioni. Stesso gruppo, solito percorso al contrario. Ognuno, ritornati in cascina, si dirigeva verso la propria abitazione, si sedeva al tavolo a pranzare, da soli, perché gli adulti pranzavano alle undici, mentre la scuola terminava alle dodici.

Prima però ci si toglieva la cerata, la si attaccava all’attaccapanni, in attesa di indossarla al prossimo acquazzone. La mia era gialla.
Ludovico Guarneri

Caro Ludovico,

sarà l’età, ma gli amarcord ci piacciono sempre, specie quelli in cui ritroviamo un’esperienza comune. L’unica attenzione che prestiamo, in questi casi, è di non cascare mani e piedi nel tranello della nostalgia supponente, quella che non si limita alla dolcezza dei propri ricordi, ma aggiunge il carico del paragone verso le nuove generazioni, come a insinuare: «Noi sì, che eravamo forti e robusti, mentre ora...».

A chi venisse questa tentazione, risponderemmo che se la pioggia è diventata un dramma, la responsabilità è proprio della nostra generazione, quella della cerata gialla, che da bimbi affrontavamo il maltempo senza curarcene, mentre da attuali papà o mamme, non solo ci «sogniamo», ma pretendiamo di accompagnare i figli a scuola. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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