Cavalieri di maggio, i capaci allevatori dei bachi da seta
I «cavalieri» di maggio. Così, Arturo Marpicati intitolava, nella raccolta degli scritti sulla sua infanzia in quel di Ghedi, il racconto dedicato all’allevamento dei bachi da seta. «Cavalieri» è l'ironica traduzione dal dialetto «caaler», termine con il quale si definivano, nella dicitura dialettale, i bachi da seta. L’origine del nome, probabilmente, deriva dal fatto che i telai con le stuoie in canna (le arèle) sui quali venivano adagiati i bachi erano accavallati gli uni sugli altri tramite strutture in legno (dette «scalere») che supportavano i telai. Di solito 4/5 telai. L’allevamento dei bachi da seta occupava poco più di un mese ed ha rappresentato per tutto l’800 e fino ai primi anni del secondo Dopoguerra un’integrazione del reddito fondamentale per molte famiglie contadine della pianura bresciana e lombarda in generale. Esso iniziava, verso l’ultima settimana di aprile, con i preparativi del locale di allevamento e con l’acquisto del seme dei «caaler». Cosa molto singolare è rappresentata dal fatto che l’unità di misura dell’allevamento era l’oncia, l’unità di misura inglese. «Onso» in dialetto. Essa determinava il peso delle uova che si sarebbero trasformate nei bachi prima e nei bozzoli di seta successivamente. Era un’attività, la cui gestione spettava alle donne, dall’approntamento della stanza in cui venivano messe le «arelle» alla raccolta delle foglie del gelso, unico alimento che può essere usato per far crescere i bachi da seta. Questo è il motivo per cui, gran parte dei campi della pianura erano divisi da filari di gelsi («I muur»), almeno fino a circa 40/50 anni fa. Le foglie venivano raccolte in sacchi di iuta tenuti aperti da una sagoma di legno e portati a tracolla con una corda. Al gelso, donne e relativi bambini, si avvicinavano con la stessa scala con pioli di legno che veniva utilizzata in cascina per salire nel pollaio. Tutte le famiglie, in cascina, possedevano una scala a pioli in legno ed erano anche in grado di costruirsela. La scala a pioli faceva parte del corredo di una famiglia. Il periodo dell’allevamento dei «caaler» andava dalla fine di aprile alla prima settimana di giugno. I ritorni di freddo erano molto pericolosi e temuti, pertanto, nella stanza di allevamento dei bachi, solitamente c'era anche una stufa a legna pronta per essere accesa nelle notti più fredde. A Ghedi esisteva anche un’altra tradizione. Far benedire il «fagottino» (l’oncia o la mezza oncia di seme) dal prete della chiesetta dei Morti della Fossetta, prima di sistemare «la somesò dei caaler» nel primo letto di schiusa. Molte contadine lasciavano, per una notte, all’interno del Santuario, il contenitore con il seme dei bachi a contatto con le ossa dei morti o nelle immediate vicinanze, per invocare la protezione delle anime «purganti». In ogni caso don Lorenzo Tracconaglia aveva una preghiera specifica per la benedizione dei «caaler». Una buona annata di «bozzoli» significava potersi permettere un abito nuovo o un cambio di scarpe per i figli.
// Ludovico GuarneriGhedi
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato