Carcerati al lavoro (ma ogni medaglia ha almeno due lati)
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Lettere al direttore
AA
Mi permetto di sottoporre a lei e ai suoi lettori una proposta di complessa gestione per le persone che si trovano in carcere. C’è richiesta di lavoratori dall’agricoltura all’edilizia, alla ristorazione: subito si pensa ad una nuova immigrazione. Le nostre carceri sono strapiene e probabilmente un certo numero di queste persone si trovano in questa situazione o per le lungaggini della giustizia o «fame coacti» per essere rimasti senza lavoro, senza casa, senza nessun aiuto o più spesso per aver compiuto delle azioni delittuose. Probabilmente alcuni carcerati accetterebbero di lavorare. Si otterrebbero vari effetti positivi: 1) minore nuova immigrazione; 2) rieducazione di chi è finito in carcere; 3) minor numero di persone da rispedire nei Paesi di origine; 4) alleggerimento dei costi delle carceri; 5) possibile miglioramento della vita della Polizia penitenziaria.
Giuseppe Di Bella
Roncadelle
Caro Giuseppe,
scegliamo la sua lettera perché rispecchia una tentazione comune (a cui neppure noi siamo immuni): pensare che esistano soluzioni semplici per problemi complessi.
Senza voli pindarici, concentriamoci sul caso specifico. Il teorema è questo: in Italia c’è richiesta di lavoratori, i carcerati possono lavorare, se lo facessero loro si renderebbero utili, le aziende ne gioverebbero, lo Stato risparmierebbe e non dovremo neppure accogliere nuovi immigrati.
Meglio di così, cosa pretendere?
La teoria è sempre affascinante, a parte il fatto che sovente tra il dire e il fare ci si metta di mezzo di mezzo il mare. Nella realtà, dove ciò accade - pensiamo agli Stati Uniti, ad esempio - il sistema degenera, introducendo una nuova forma di schiavitù, con carcerazioni facili e forme di concorrenza sleale all’interno dello stesso Paese. Ecco perché siamo sostenitori del lavoro all’interno delle carceri, ma soltanto in funzione educativa, con la possibilità dunque di autofinanziare le proprie attività, senza però inserirsi nel libero mercato.
Se poi qualcuno avesse da ribattere e portasse dati e riscontri differenti saremmo lieti di lasciarci convincere. Considerato che, come sosteneva Epicuro, «nelle discussioni tra chi ama ragionare, vince chi perde: perché impara». (g. bar.)
Giuseppe Di Bella
Roncadelle
Caro Giuseppe,
scegliamo la sua lettera perché rispecchia una tentazione comune (a cui neppure noi siamo immuni): pensare che esistano soluzioni semplici per problemi complessi.
Senza voli pindarici, concentriamoci sul caso specifico. Il teorema è questo: in Italia c’è richiesta di lavoratori, i carcerati possono lavorare, se lo facessero loro si renderebbero utili, le aziende ne gioverebbero, lo Stato risparmierebbe e non dovremo neppure accogliere nuovi immigrati.
Meglio di così, cosa pretendere?
La teoria è sempre affascinante, a parte il fatto che sovente tra il dire e il fare ci si metta di mezzo di mezzo il mare. Nella realtà, dove ciò accade - pensiamo agli Stati Uniti, ad esempio - il sistema degenera, introducendo una nuova forma di schiavitù, con carcerazioni facili e forme di concorrenza sleale all’interno dello stesso Paese. Ecco perché siamo sostenitori del lavoro all’interno delle carceri, ma soltanto in funzione educativa, con la possibilità dunque di autofinanziare le proprie attività, senza però inserirsi nel libero mercato.
Se poi qualcuno avesse da ribattere e portasse dati e riscontri differenti saremmo lieti di lasciarci convincere. Considerato che, come sosteneva Epicuro, «nelle discussioni tra chi ama ragionare, vince chi perde: perché impara». (g. bar.)
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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