Attenti, il cellulare può generare vera dipendenza

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Chiedo ospitalità per sensibilizzare circa un fenomeno che sta diventando sempre più preoccupante: l’uso, o meglio dire la dipendenza dall’uso del cellulare. Sì, dipendenza, come descritto in «Fisica e cibernetica nelle nevrosi» (F. Facchini) dove col termine di «nomofobia» (no mobile phone phobia) si intende la paura di restare emarginati a causa di non avere il cellulare a disposizione. Da indagini fatte da Motorola infatti il 53% dei campioni esaminati affermava che se il cellulare fosse una persona sarebbe da considerarsi come il migliore amico (!). Il 33% lo preferiva alle interazioni interpersonali, mentre un intervistato su due asseriva che sarebbe andato in panico in caso di smarrimento o furto. I sintomi si descrivono quali: - Allerta spasmodica di notifiche in arrivo; - Isolarsi mentre si sta con altre persone; - Tenere il cellulare quasi sempre in mano e osservarlo continuamente; - Mostrare insofferenza se si è fuori campo; - Negare di essere dipendenti. I disturbi correlati sono ansia, angoscia, depressione e, in alcuni casi, tachicardia. A mio avviso questa continua connessione con un mondo virtuale allontana la comunione da quello reale e dà una definizione di esperienza completamente defraudata da quelle piccole grandi cose che invece sono alla base del rapporto diretto con persone, ambienti, paesaggi, impoverendo l’esperienza stessa delle sensazioni ad essa legate. L’oggetto prioritario non è più il vissuto ma quello che è «interessante pubblicare» fine a se stesso. Non ci sono contenuti, solo visibilità ed oltre all’aspetto prettamente patologico ci si impoverisce sempre più di abilità quali l’orientamento per esempio (c’è Google maps) o la memoria (rubrica telefonica) ecc. La terapia più indicata è l’approccio cognitivo/comportamentale basato sull’evoluzione di una personalità fragile e insicura con tecniche desensibilizzanti e controfobiche. Quantomeno i genitori siano consapevoli di questa situazione e ne tengano conto nella educazione dei propri figli coinvolti sempre più giovani in queste dinamiche.
Marco Ventura
Brescia

Caro Marco,

riprendiamo e rilanciamo il suo appello, condividendone pienamente e sinceramente le preoccupazioni, senza tuttavia gettare ulteriore benzina sul fuoco del pessimismo.

Intendiamoci, non che i rischi che lei solleva e le storture di certi comportamenti non siano ben presenti in noi, prima ancora che negli altri (che la trave nel proprio occhio dovrebbe sempre pungere più della pagliuzza in quello altrui).

Massima allerta dunque, anche se a farci tenere i nervi saldi non è la tecnologia, bensì una qualità prettamente umana: la buona memoria.

Ricordiamo bene infatti i discorsi sconsolati quando noi eravamo piccoli e, in quel caso, il demonio era la televisione. «I ragazzi non giocano più, non parlano più, stanno lì inchiodati allo schermo, rimbecilliti, chissà che adulti diventeranno?». Adulti siamo diventati, difetti ne abbiamo in abbondanza, ma né più né meno delle generazioni che ci hanno preceduto.

Qui però entra in gioco la filosofia, l’atteggiamento nei confronti della vita. Chi è pessimista e crede che tutto vada sempre peggio coglierà ogni segnale negativo e lo amplificherà, per dimostrare che non ha torto. Chi invece è convinto che ogni stagione abbia i propri pro e contro, tiene alta la guardia, cercando però di evitare tutti gli eccessi, compreso quello del catastrofismo. Che, a ben guardare, può fare più danni del telefono. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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