Accettare un aiuto o cavarsela da soli Un bel dilemma

Lettere al direttore
AA
Ho letto con interesse su una importante rivista cattolica a cui sono abbonato da trenta anni il caso di una insegnante delle medie inferiori, evidentemente molto scrupolosa, che chiedeva consigli su un allievo con certificazione Bes, che tradotto significa allievo che ha bisogno di un piano educativo speciale, un sostegno per raggiungere gli obiettivi degli altri. Ovvero ha Bisogni Educativi Speciali, Bes. Il problema era che il ragazzo aveva reagito chiedendo i criteri secondo cui era stato classificato Bes; ma non solo, affermava di non sentirsi Bes e di poter farcela come tutti gli altri. Il responsabile della rubrica Scuola tranquillizzava la docente suggerendo di puntare su un dialogo costruttivo per convincere il ragazzo. Ho insegnato per circa trentatré anni e ho dovuto lasciare con grande dolore causa Parkinson, mi permetto, con grande rispetto, senza pretesa di avere la verità in tasca, di esprimere un parere diverso. Io mi sento di dire che questo ragazzo è un eroe. Nel tempo della corsa al sostegno e alle certificazioni di ogni tipo per avere qualche asso in più da giocare, questo ragazzo dice: «Ce la faccio da solo grazie». Come non tifare per lui e vedere come va, certo senza abbandonarlo, ma dal tenore della lettera mi sembra abbia degli insegnanti seri e impegnati, che è la cosa che più conta nella scuola .
Stefano Bolla
Caro Stefano,
lo spunto che lancia è ghiotto e non possiamo esimerci dal coglierlo. Con una puntualizzazione: ne discutiamo tra noi, senza la perizia degli esperti, come tra amici che amano ragionare e non hanno altre pretese che comprendersi reciprocamente, al meglio.
Lo precisiamo subito e chiaramente, poiché un conto sono le opinioni generiche, ciascuna legittima, un altro il parere di chi è competente a fornirlo, in questo caso medici o psicologi. Altrimenti vale tutto.
Tornando a noi, condividiamo il pensiero che si debba fare il tifo per quel ragazzo, parimenti però dobbiamo anche ammettere che a nostro giudizio egli abbia torto.
Nel senso che delle due l’una: o le difficoltà sono reali, oggettive, e le certificazioni hanno un senso, dovendo imparare ad accettare la differenza, lo svantaggio, adottando degli strumenti per compensarlo, oppure reputiamo che si tratti di sofismi di noi contemporanei e che basti forza di volontà, impegno e determinazione per superare tutto.
Noi propendiamo per la prima ipotesi. E ciò che ci pare importante è insegnare ai nostri ragazzi non a negare le difficoltà, bensì a riconoscerle, senza vergogna, pudore o imbarazzo. (g. bar.)
Stefano Bolla
Caro Stefano,
lo spunto che lancia è ghiotto e non possiamo esimerci dal coglierlo. Con una puntualizzazione: ne discutiamo tra noi, senza la perizia degli esperti, come tra amici che amano ragionare e non hanno altre pretese che comprendersi reciprocamente, al meglio.
Lo precisiamo subito e chiaramente, poiché un conto sono le opinioni generiche, ciascuna legittima, un altro il parere di chi è competente a fornirlo, in questo caso medici o psicologi. Altrimenti vale tutto.
Tornando a noi, condividiamo il pensiero che si debba fare il tifo per quel ragazzo, parimenti però dobbiamo anche ammettere che a nostro giudizio egli abbia torto.
Nel senso che delle due l’una: o le difficoltà sono reali, oggettive, e le certificazioni hanno un senso, dovendo imparare ad accettare la differenza, lo svantaggio, adottando degli strumenti per compensarlo, oppure reputiamo che si tratti di sofismi di noi contemporanei e che basti forza di volontà, impegno e determinazione per superare tutto.
Noi propendiamo per la prima ipotesi. E ciò che ci pare importante è insegnare ai nostri ragazzi non a negare le difficoltà, bensì a riconoscerle, senza vergogna, pudore o imbarazzo. (g. bar.)
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