Perché il G20 sull'Afghanistan rischia di rivelarsi inutile
Il tentativo di Draghi per un summit del G20 ad hoc rischia di essere poco efficace. L’idea di Mario Draghi di promuovere un summit straordinario del G20 sulla crisi in Afghanistan e cercare un approccio multilaterale a quanto sta accadendo a Kabul sembra essere destinata, se non al fallimento, quanto meno al ridimensionamento. Nessuno discute le buone intenzioni del nostro Presidente del Consiglio, uomo di mediazione e di visione, ma il riassetto dei rapporti di forza in Asia centrale stanno determinando un nuovo scenario.
L’uscita di scena dall’Afghanistan degli Usa, ma anche della Nato e degli europei, ha subito messo in primo piano il ruolo di altri attori, già presenti nel teatro afghano, ma ora molto più determinanti. Del ruolo del Pakistan sul ritorno dei talebani si è parlato fin troppo, forse anche ingigantendo alcune eventi (come la finta notizia secondo cui droni pakistani avrebbero bombardato la resistenza in Panshir). Resta, certo, il fatto che l’Afghanistan sia una risorsa geopolitica per il governo pakistano che acquisisce profondità strategica. Ma chi ha intenzione di gestire la questione afghana a livello regionale è la Cina.
Nel giorno in cui il presidente Xi ha avuto una conversazione con Draghi, per le sorti di Kabul ha avuto più importanza la telefonata che il cinese ha avuto addirittura con il presidente tagiko Emomali Rahmon. Incredibile che il più longevo dei presidenti delle repubbliche centrasiatiche ex sovietiche (è al potere dalla nascita del Tagikistan indipendente nel 1991) abbia più importanza del premier italiano nonché ex presidente della Bce. La ragione è semplice: a metà settembre a Dushanbe si terrà il summit annuale della Sco, l’organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Il 16 e il 17 settembre si troveranno Putin, Xi, l’indiano Modi, il pakistano Khan, probabilmente il neoeletto presidente iraniano Raisi e quattro delle cinque ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Nelle intenzioni di Pechino c’è chiaramente la volontà di risolvere ed affrontare la crisi afghana in questa sede, una sorta di gestione regionale dell’ascesa dei talebani. Sembra che anche Mosca condivida questo approccio visto che la Russia sta mantenendo la stessa posizione della Cina: astensione sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza sull’Afghanistan e opposizione alla proposta francese per la creazione di una safe zone delle Nazioni Unite proprio a Kabul per tutelare quanti ancora vorrebbero venire in Europa per il rischio di ritorsioni da parte del nuovo regime. Capiremo presto se la linea cinese si rivelerà azzeccata e se davvero gli attori regionali riusciranno ad «ingabbiare» i talebani. I presupposti non sono incoraggianti, anzi piuttosto imprevedibili: nel nuovo governo di Kabul trovano posto importanti protagonisti del terrorismo internazionale, un mix di volti noti e figure emergenti. Tanto che anche Pechino invita il regime talebano ad un taglio nei rapporti con i gruppi terroristici.
Tornando verso Occidente, passata l’enfasi e l’indignazione sul tracollo di Kabul, con tanto di autofustigazione collettiva dei leader occidentali sotto il giudizio severo dell’opionione pubblica (che nel frattempo si è già annoiata del tema), ora si tratta di capire come poter contare nell’area. Da un punto di vista strategico è fuor di dubbio che abbiamo perso l’iniziativa, a questo punto il nostro ruolo potrebbe essere giocato a livello umanitario, almeno una cosa in cui l’Europa riesce a distinguersi dagli altri. E attraverso gli aiuti fare leva sui talebani per la tutela di alcuni diritti. Non è certo una grande novità, già Emma Bonino quando era commissaria europea per gli Affari Umanitari a fine anni ’90 aveva trattato con i talebani (ed era stata arrestata a Kabul) per garantire maggiori tutele sanitarie per le donne afghane. Insomma ruolo umanitario e niente più, il che riporta al centro del dibattito europeo il ruolo dell’Unione nel mondo, ma al contempo la necessità di ripensare anche l’approccio strategico della Nato.
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