«Mio figlio è come Charlie, ma vive ed è felice»
I genitori di un bimbo di nove anni, affetto dalla stessa malattia di Charlie Gard, sono in contatto da tempo con la famiglia inglese a favore della quale la madre del piccolo italiano ha lanciato anche un appello. Ne dà notizia La Nazione quotidiano di Firenze. (Sul caso del piccolo inglese qui la lettera di una coppia di genitori bresciani)
Emanuele «Mele» Campostrini vive a Massarosa, in provincia di Lucca, ed è affetto da deplezione del dna mitocondriale, è sordo, non parla ma respira da solo, viene nutrito con un sondino, va a scuola in ambulanza accompagnato da un’infermiera e comunica attraverso un puntatore ottico.
«Non c'è nulla di più bello dell'essere genitori. La malattia è un aspetto secondario. Noi decidemmo di andare avanti», ha spiegato la mamma di Mele, Chiara Paolini, che con il marito Massimo è in contatto con la famiglia Gard. «Spesso parlo con la zia di Charlie - spiega -. Mi dice che i suoi genitori sono sempre con il bimbo, possono stare nello stesso letto, coccolarlo, gli stanno accanto, è molto bello e molto brutto assieme, perché sanno che è stata decretata la sua morte».
«La differenza tra Mele e Charlie - ha spiegato ancora la mamma di Mele al giornale - è solo nel tipo di gene malato, che causa però la stessa malattia, e nelle leggi dello Stato in cui vivono. La legge sul fine vita che vige in Inghilterra è stata riconosciuta suprema dai giudici europei, rispetto al diritto alla vita di Charlie. In Italia, invece, la legge vieta l’interruzione delle cure nei bambini senza il permesso dei genitori. Questo diritto diventerebbe, anche da noi, molto più incerto se passasse la legge sul Dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) in discussione al Senato. Penso che dobbiamo combattere perché quella legge non passi, per non metterci nei guai».
Mele è il secondo di tre figli, è nato nel 2008. Una volta diagnosticata la malattia, racconta ancor mamma Chiara, «i medici dissero che sarebbe vissuto al massimo un anno e ci consigliarono di accompagnarlo alla morte, evitando l'accanimento terapeutico. Per un certo tempo ci lasciammo convincere che fosse la strada migliore. Ma una notte Mele ebbe un attacco e io lo ventilai per diverse ore. Ero divisa a metà. Non volevo che soffrisse ma nemmeno lasciarlo andare. Capì, però, che mentre lo aiutavo a respirare lo stavo, in realtà, accompagnando alla vita; così decidemmo di andare avanti. Ora - conclude - è un bimbo felice, amato e pieno di speranza».
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