Italia e Estero

«La nostra paura in comunità tra contagi e niente tamponi»

L'emergenza coronavirus vista attraverso il racconto del direttore sanitario di una comunità terapeutica per la salute mentale
Un test per il Covid-19
Un test per il Covid-19
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«È stato un mese e mezzo di indicazioni contraddittorie, difficilmente applicabili, un mese di paura e confusione». Il direttore sanitario di una comunità terapeutica per la salute mentale sintetizza così le settimane appena trascorse nella struttura in cui lavora. Una ventina gli ospiti, giovani e meno esposti alle gravi conseguenze del Covid-19, una trentina gli operatori, un terzo dei quali è stato contagiato dal virus «perché non abbiamo avuto gli strumenti per difenderci».

Nel piccolo osservatorio di questa comunità lombarda, il cui responsabile sanitario preferisce rimanere anonimo, i primi giorni dopo l’inizio della pandemia in Italia sono caratterizzati dalla difficoltà di capire la portata di ciò che stava accadendo «anche perché dalla Regione non arrivavano disposizioni chiare sulle misure da adottare».

Poi, dopo il decreto governativo dell’8 marzo inizia la corsa all’acquisto di dispositivi di protezione, a partire dalle mascherine, «ma era quasi impossibile trovarle». «Se pensate che anche le aziende ospedaliere facevano fatica, figuratevi le cooperative sociali che non avevano canali di approvvigionamento particolari».

Poco dopo, il 10 marzo, la Regione Lombardia invia una nota con indicazioni sulla gestione dell’emergenza. Per gli operatori sanitari si raccomanda l’uso di dispositivi di protezione, che restano comunque difficili da reperire, «ma è sui tamponi che le direttive ci hanno stupito in negativo». Nel documento si legge infatti che «per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di COVID-19 senza che siano stati usati gli adeguati DPI per rischio droplet o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extralavorativo, NON è indicata l’effettuazione del tampone ma il monitoraggio giornaliero delle condizioni cliniche. In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica».

In questo modo, «le persone si sono contagiate tra loro, lavorando a stretto contatto», prosegue il direttore sanitario, «e non c’era modo di capire quanto e come stava circolando il virus».

Tra gli operatori malati ci sono anche casi gravi, anche se per nessuno di questi viene disposto il ricovero in ospedale. «Nel personale aumentava la paura, c’era sempre più tensione. Abbiamo avviato un servizio di consulenza psicologica per aiutare tutti a gestire questa fase delicata». Contemporaneamente, aumentava lo stress tra i pazienti, affetti da problemi di salute mentale e costretti dalla situazione a fare i conti con lo stop alle uscite e alle visite dei parenti.

«Ciò che è successo da noi è lo specchio di quanto avvenuto nelle Rsa, anche se nella nostra struttura la giovane età degli ospiti ha evitato finora il peggio», racconta il direttore sanitario. Da parte di Ats arriva anche una nota in cui si invita a segnalare i casi sospetti di contagio: «Sarà Ats ad attivare la Asst competente per territorio per la predisposizione dei tamponi, che dovranno poi essere ritirati (e restituiti) da parte della struttura - si legge nel documento -. L’esecuzione del test resta in capo alla struttura stessa, con ricorso al proprio personale sanitario, incluso il medico competente».

«In pratica ci chiedevano di fare noi stessi i test, ma con quali procedure? E con quale formazione? Sono test con materiale potenzialmente ad alto rischio infettivo, non possono essere affidati a chiunque senza le adeguate protezioni», proseguono dalla comunità. Marzo prosegue dunque senza tamponi, fino a quando il 9 aprile le disposizioni regionali cambiano. «Gli operatori che hanno avuto contatti con persone COVID + devono effettuare isolamento precauzionale per 14 gg. Se ciò non è possibile per motivi organizzativi in relazione alla carenza di personale, possono effettuare tampone e, se negativo, possono rientrare al lavoro usando i dispositivi a scopo precauzionale (mascherine chirurgiche e guanti)».

Anche gli operatori, dunque, devono stare in quarantena in caso di contatti con pazienti sospetti o conclamati, fuori e dentro la struttura. «Per fortuna - commenta il direttore sanitario -, anche se resta il fatto che i tamponi nella nostra comunità non sono ancora stati fatti, mentre invece ce ne sarebbe bisogno ancora oggi, visto che abbiamo persone malate ormai da un mese».

In un ambiente in cui limitare i contatti è difficile, si vive alla giornata, cercando di proteggersi con i dispositivi disponibili, pochi all'inizio e via via aumentati. «Negli ultimi quindici giorni siamo riusciti ad avere tutte le protezioni necessarie. Nel frattempo abbiamo lavorato per limitare al massimo i pericoli di contagio. Se siamo andati avanti è solo grazie all’impegno e al forte senso di responsabilità degli operatori, ma anche noi ci siamo sentiti lasciati soli di fronte all’emergenza».

 

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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