«Ecco perché il piano pandemico ci è costato 10mila vite»
Il rapporto choc stilato dal generale dell'Esercito in pensione, Pier Paolo Lunelli, circa l'inadeguatezza del Piano pandemico di cui l'Italia disponeva all'arrivo dello tsunami coronavirus, è stato illustrato ieri dal Giornale di Brescia e dal Guardian inglese. Nella sua analisi, il generale - esperto di pianificazione e tra i suoi ultimi incarichi responsabile della Scuola Interforze per la Difesa Nbc, la struttura che a livello nazionale forma al contrasto delle minacce di tipo chimico, biologico, radiologico e nucleare non solo il personale militare, ma anche quello civile e dei ministeri - individua le pesanti criticità del quadro nazionale, stimando in 10mila vite quelle che un Piano aggiornato avrebbe potuto salvare nella pandemia del Covid-19. Nell'intervista che segue, realizzata dal collega Andrea Cittadini, ha fornito alcune delucidazioni su quanto il suo rapporto ha evidenziato.
Come è nata l'intenzione di scrivere la sua ricerca?
«Il tutto è cominciato tra febbraio e marzo con la strage degli over 65 in provincia di Bergamo. Non potevo credere che fosse possibile una cosa simile in un Paese come il nostro, nel ventunesimo secolo. Tassello su tassello ho cercato di comporre il quadro di un complicato puzzle utilizzando soltanto fonti reperibili online».
A cosa serve un piano pandemico?
«Mira a contenere le conseguenze negative che una pandemia inevitabilmente si porta dietro: vittime come conseguenza diretta dell'epidemia e vittime indirette, legate agli effetti psicologici ed economici che la pandemia avrà sul sistema Paese. Le seconde, purtroppo, saranno forse superiori alle prime».
Chi è responsabile della elaborazione del piano pandemico?
«Come in tutti i Paesi europei, la competenza per questo tipo di minaccia in Italia risale al Ministero della Salute».
Cosa avrebbe dovuto comprendere un valido piano pandemico?
«Poco sapevamo circa le caratteristiche della minaccia pandemica, per cui i nostri piani avrebbero dovuto basarsi su un chiaro scenario con relative ipotesi di lavoro. Potevano tornare utili le precedenti esperienze pandemiche, o più semplicemente sarebbe bastato guardare ciò che hanno fatto i Paesi vicini a partire dal 2011. Il piano pandemico "madre", secondo, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, deve figliare i piani dei vari ministeri (es. Trasporti, Interno, Salute, Istruzione, ecc.) e i piani regionali, che a loro volta generano quelli locali. In sostanza, i piani ai vari livelli diventano gli anelli di una catena difensiva posta a sbarramento della minaccia. Se un anello cede perché il virus riesce a penetrare è necessario ripristinare la situazione ed i piani ben fatti dicono che cosa fare. Ma se l'anello principale è debole e cede al primo impatto il sistema rischia di implodere. Se ciò dovesse capitare, il lockdown diventa l'unica misura utile».
Con queste premesse, come giudica il piano pandemico nazionale?
«Le carenze che ho individuato sono numerose ma ne cito alcune tra le più importanti. Innanzitutto, non delinea uno scenario sulla base del quale sarebbe stato possibile calcolare le esigenze in termini di letti di ospedale, posti in terapia intensiva, scorte di materiali sanitari. Secondo, non è stato aggiornato e quindi non tiene conto delle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che sono state via via perfezionate negli ultimi quattro anni e nemmeno delle decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio di sette anni fa. Terzo, il piano non è stato testato con un'esercitazione. Se lo avessimo fatto ci saremmo accorti che molto più di qualcosa non andava nel verso giusto».
Quale è stato il macroerrore?
«Credo sia stato una grave sottovalutazione del rischio pandemico da parte del ministero della Salute, forse ispirata dalla convinzione che il nostro stellone ci avrebbe ancora protetto. Eppure l'indice globale di valutazione della sicurezza sanitaria (Global Security Index - GHS), il quale attribuisce una valutazione completa delle capacità dei sistemi sanitari dei vari Paesi, ci aveva già dato i voti a fine 2019, giusto qualche mese prima della pandemia. Ebbene, l'indice della capacità di fronteggiare un'emergenza sanitaria (Emergency response operations) aveva relegato l'Italia al 126° posto nel mondo tra i 195 Paesi con popolazione superiore a 5 milioni di abitanti e al 59° posto nella qualità della pianificazione di emergenza (Emergency preparedness and response planning). Qualche campanello avrebbe dovuto suonare nei corridoi dove si prendono decisioni».
Nella sua ricerca lei ha fatto una previsione di 10.000 morti in meno se ci fosse stato un piano pandemico aggiornato.
«Confrontando le performance in termini di vittime ogni milione di abitanti dei vari Paesi europei ho soltanto rilevato l'esistenza di una correlazione tra data di aggiornamento dei rispettivi piani e il tasso di mortalità, inteso come numero di vittime per milione di abitanti. Chi aveva piani più recenti ha avuto meno morti. In questa prospettiva, se avessimo puntato alle performance dei tedeschi, che nei loro piani sono veramente teutonici, avremmo avuto in totale intorno a 6.000 vittime anziché 35.000. Tuttavia, senza puntare così in alto ed accontentandoci delle performance medie dell'Olanda, forse avremmo potuto risparmiare 10.000 vite. Ma anche se ne avessimo risparmiate soltanto 1.000 ne sarebbe valsa la pena».
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