Italia e Estero

Chernobyl, 36 anni fa il disastro nucleare che paralizzò il mondo

Era il 26 aprile 1986: il reattore 4 scoppiò nella centrale Urss, poi l’incubo della nuvola tossica che terrorizzò anche l'Italia
La centrale nucleare di Chernobyl
La centrale nucleare di Chernobyl
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Un attacco invisibile, con un nemico che si confonde nell’aria sottoforma di goccioline, falcidiando tutto ciò che incontra lungo il suo cammino. Una raffica di bugie, di verità occultate, uno scaricabarile continuo. E poi la morte in solitudine, i funerali proibiti, i parenti allontanati, l’eroe «usa e getta», quello chiamato a immolarsi senza protezioni adeguate né elmetto, lasciato solo di fronte all’inimmaginabile.

Tutto questo è stato Chernobyl, il disastro nucleare più grave della storia dell’umanità che trentasei anni fa paralizzò il mondo intero. Con la guerra ancora in corso in Ucraina, questo anniversario pare ancora più triste e riemerge un incubo - giustamente - mai dimenticato.

Il giorno del disastro

Chernobyl, 26 aprile 1986. Nell’unità numero 4 della centrale nucleare è in corso un test di sicurezza per appurare i tempi di resistenza dell’impianto in caso di blackout energetico: si tratta di verificare se la potenza residua della turbina principale basti ad alimentare le pompe per il raffreddamento e i dispositivi di sicurezza prima dell’avvio dei generatori d’emergenza e vengono disattivati alcuni dispositivi d’emergenza.

Quella notte alla centrale sono in servizio 176 tecnici, fisici e ingegneri più 268 operai e assemblatori del turno di notte. I morti iniziali, dicono sfrontatamente le autorità, sono solo due. Mentivano. Furono decine. Poi, col passare delle ore, dei giorni, delle settimane, divennero centinaia. Nei mesi, e negli anni, la radioattività decimò la popolazione: dopo sofferenze indicibili.

Per la prima volta nella storia un incidente nucleare venne classificato al settimo livello, il massimo. Le conseguenze, devastanti, si sono trascinate per decenni e la zona è ancora «minata». Un avvelenamento dell’ambiente che mise in crisi l’«iperumanesimo» del Novecento. Tonnellate di materiale nucleare vengono scagliate nell’atmosfera, un mix micidiale di diossido di uranio, iodio-131, plutonio-239, nettunio-139, cesio-137 e stronzio-90, insieme ad altri isotopi radioattivi provenienti dal nocciolo, che si spargono nell’area attorno alla centrale e sul tetto delle strutture dell’unità 4, inspiegabilmente costruito con catrame infiammabile e non con materiali ignifughi. Questa nuvola incandescente inizia a viaggiare nel cielo, investendo per prima la foresta di pini vicina alla centrale e poi il centro di Pripyat, la cittadina modello creata appositamente per i lavoratori dell’impianto, per dirigersi nelle ore successive verso l’Europa del Nord, toccando Finlandia e Scandinavia, e poi a ovest e sud verso Francia, Germania, Svizzera, Austria, Balcani, Italia.

L'arrivo della nube in Italia

Era il 30 aprile quando cominciarono a prendere consistenza le previsioni che davano l’arrivo della nube tossica nell’Italia settentrionale. A Brescia, come in tutto il Paese, le precauzioni enumerate dal ministero della Sanità si diffusero tra la popolazione. Si proibì per due settimane il consumo di verdure a foglia larga coltivati all’aperto e, per i bambini fino a dieci anni e le donne in stato di gravidanza, il consumo di latte fresco.

Nel frattempo, con la promessa di un ritorno alle proprie case entro pochi giorni, gli abitanti di Pripyat, Chernobyl e centinaia di piccoli villaggi circostanti, venivano caricati sui pullman dalle autorità sovietiche e portati a Kiev: quasi 350mila persone, che non faranno mai più ritorno nei luoghi del disastro, reso inabitabile dai livelli di radioattività. La città di Pripyat diventerà il simbolo dell’incidente nucleare, il luogo fantasma in cui il tempo è ancora fermo all’una e 22 minuti del 26 aprile 1986.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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