Caso Brusca, Maria Falcone: «Rivedere l’ergastolo ostativo»
Le svariate prese di posizione alla notizia della scarcerazione, dopo 25 anni, del mafioso Giovanni Brusca che da collaboratore di giustizia, dopo un avvio controverso, ha dato un contributo allo smantellamento dell’ala militare di Cosa nostra, si sono solidificate attorno al tema: non deve accadere più che un assassino di bambini, un uomo dai 200 omicidi, uno stragista possa tornare a circolare liberamente.
Da più parti politiche quindi è giunta la sollecitazione a mettere mano a una legge sull’ergastolo ostativo. Il leader della LegaSalvini dice che la legge sui pentiti «si può aggiornare». «Chi ha sciolto un bambino nell’acido, non può passeggiare libero come se nulla fosse - afferma - Chi ammazza deve stare in galera fino alla fine dei suoi giorni senza sconti e senza scorciatoie».
La sorella di Giovanni Falcone, che nei pentiti vedeva un’arma potente per sconfiggere le cosche, Maria, dice che «nessuno può essere più addolorato e indignato di noi davanti alla scarcerazione di uno degli individui peggiori che la storia del Paese abbia conosciuto. Ho ascoltato moltissime dichiarazioni di politici e assistito a un’ondata di indignazione dell’opinione pubblica che dimostra quanto la coscienza dei nostri concittadini sia mutata e maturata in questi 29 anni».
La presidente della fondazione Falcone lancia un appello alla politica «affinché traduca lo sdegno espresso per la liberazione di Giovanni Brusca in un impegno reale per una approvazione veloce della riforma della legge sull’ergastolo ostativo sollecitata dalla Corte Costituzionale». Ai politici dice che «hanno l’occasione per dimostrare che la lotta alla mafia resta una priorità del Paese» e che possono «attraverso una normativa giusta, evitare scarcerazioni e permessi i boss che mai hanno interrotto il loro perverso legame con l’associazione mafiosa» senza «concedere benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia».
Perchè ciò «determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione di Brusca». L’uomo che si è autoaccusato di aver premuto il telecomando che fece esplodere il tritolo che provocò la strage di Capaci, in diverse occasioni soprattutto durante i processi, aveva cercato di «ammansire» i familiari delle vittime porgendo le scuse per i propri delitti ma era stato anche detto che il pentito cercava di ottenere benefici dai magistrati per la diminuzione della pena o per ottenere più permessi premio.
Una di queste occasioni è stata 5 anni fa durante un’intervista a Zek e Arte France in cui l’ex boss di San Giuseppe Jato aveva detto: «Ho riflettuto e ho deciso di rilasciare questa intervista: non so dove mi porta, cosa succederà, spero solo di essere capito. Ho deciso (di farlo) per fare i conti con me stesso, perché è arrivato il momento di metterci la faccia, anche se non posso per motivi di sicurezza, ma è nello spirito e nell’anima che ho deciso di farlo. Di poter chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime, a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere».
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