Italia e Estero

«Abbracciai il generale e piansi, solo allora mi sentii libero»

Parla il generale Bellini: 30 anni fa il suo Tornado fu abbattuto in Iraq. Il futuro comandante di Ghedi fu prigioniero per 47 giorni
L'allora maggiore pilota Gianmarco Bellini (coi baffi) e il capitano navigatore Maurizio Cocciolone dopo i 47 giorni di  prigionia - © www.giornaledibrescia.it
L'allora maggiore pilota Gianmarco Bellini (coi baffi) e il capitano navigatore Maurizio Cocciolone dopo i 47 giorni di prigionia - © www.giornaledibrescia.it
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Il cielo notturno di Baghdad solcato dalle traccianti della contraerea. Per molti è quello il ricordo più vivido dell'inizio della prima Guerra del Golfo, scattata il 16 gennaio 1991 per liberare il Kuwait invaso dalle truppe irachene di Saddam Hussein. Trent'anni sono trascorsi dalla prima volta che i teleschermi - allora non certo al plasma o a led - ci mostrarono quanto i satelliti rimbalzavano dal Golfo Persico. Dal tetto dell'Hotel Al-Rashid di Baghdad un solo cronista occidentale era stato ammesso a trasmettere: Peter Arnett, allora alla Cnn, uno dei volti di quel conflitto, assieme a quello del generale americano Norman Schwarzkopf che diresse l'operazione Desert Storm.

Ma in Italia, la prima delle grandi operazioni «fuori area» della nostra Difesa è legata soprattutto ad una vicenda. Quella dell'abbattimento del Tornado che divenne per tutti «di Bellini e Cocciolone», dai nomi dei due ufficiali, rispettivamente pilota e navigatore, maggiore e capitano, che si trovavano a bordo di quel cacciabombardiere, ideale nelle missioni indicate come «BBQ», vale a dire «a bassissima quota».

Il maggiore pilota Gianmarco Bellini, a sinistra, e il navigatore capitano Maurizio Cocciolone, alla base di Piacenza San Damiano prima della partenza per il Golfo: con loro Lilli Gruber. Alle spalle un Tornado Ids con la livrea desertica - Foto archivio gen. Gianmarco Bellini
Il maggiore pilota Gianmarco Bellini, a sinistra, e il navigatore capitano Maurizio Cocciolone, alla base di Piacenza San Damiano prima della partenza per il Golfo: con loro Lilli Gruber. Alle spalle un Tornado Ids con la livrea desertica - Foto archivio gen. Gianmarco Bellini

Otto di quei velivoli (più alcuni di riserva), ben noti a chi viveva dalle parti di Ghedi, perché allora come oggi ne era dotato il Sesto Stormo dei Diavoli Rossi, erano stati inviati con una mimetica desertica mai vista prima, negli Emirati Arabi per partecipare alla missione Desert Shield. L'operazione dell'Aeronautica Militare italiana, nota come Operazione Locusta, prese il via la notte tra il 17 e il 18 gennaio. Degli otto Tornado, decollati per colpire un deposito di munizioni iracheni e altri obiettivi, e della trentina di velivoli Nato destinati a garantire copertura, solo il Tornado ai comandi di Bellini riuscì a effettuare il rifornimento in volo e a proseguire nella missione, a causa di fortissime turbolenze. Il Tornado completò la missione, ma poco dopo, mentre volava a meno di 80 metri dal suolo per ingannare i radar fu colpito dalla contraerea irachena. 

«É stato forse il momento più intenso di tutta la mia vita». A dirlo è Gianmarco Bellini, la voce lievemente metallica, come la restituisce il segnale digitale della chiamata effettuata in Virginia, dove oggi vive il generale di brigata aerea in congedo, 62 anni, originario di Montagnana (Pd), che nel 1991 era di casa a Borgosatollo e che nel 2001 sarebbe divenuto col grado di tenente colonnello comandante dell'aerobase di Ghedi. Insomma, un legame a doppio filo con il Bresciano, che neppure la lontanza pare aver interrotto. Ecco come ripercorre quel che accadde quella notte di 30 anni fa.  

Delle fasi dell’abbattimento, la scatola nera restituì una registrazione, divenuta un refrain nei telegiornali di allora. Il nastro ripercorre gli ultimi fatidici minuti della missione: dal rifornimento in volo al momento in cui i due aviatori si lanciano col seggiolino eiettabile nel buio che avvolge il Kuwait. Proiettati verso il cielo e l'ignoto mentre volavano a oltrr 1.000 km/h a 70 metri dal suolo. Una botta da perdere i sensi. E infatti così fu. 

Che effetto le fa riascoltare la registrazione a distanza di 30 anni? «Non amo risentirla, mi è capitato alcune volte. Ma non mi è facile: mi riporta a quegli istanti in cui, forse per volere di Dio, riuscimmo a uscire da quell’aereo che sarebbe finito in pezzi nel deserto. L’intensità di quei momenti è ancora viva, come immutata».

Per Bellini e Cocciolone, caduti vicino ad una caserma e subito catturati dalle unità irachene, iniziarono 47 giorni di prigionia, tortura, incubo. Spostati più volte in carceri di fortuna, ebbero in sorte anche un bombardamento alleato che centrò proprio il compound di Baghdad in cui erano tenuti prigionieri.

Come si sopravvive a un’esperienza simile? «Le difese del mio organismo mi hanno permesso di cancellare i primi giorni di prigionia. Non ricordo nulla degli interrogatori più cruenti. Ricordo invece momenti di minor tensione e la sensazione di vulnerabilità, perché non potevamo controllare nulla della situazione. Avevo un pensiero costante, tornare a casa. Credo che per i miei genitori sia stata più dura. Maurizio fu mostrato in tv, di me loro non ebbero mai notizie».

Prova rancore per i suoi carcerieri? «No, in alcun modo. Erano soldati. Il problema era la leadership irachena di allora. Parlavo con quei militari, ammettevano di non rispettare la Convenzione di Ginevra perché ritenevano non fosse adatta a un Paese del terzo mondo».

E della liberazione cosa ricorda? «Maurizio fu portato in auto fino a Damasco e consegnato alle autorità italiane. Io invece fui trasferito con un aereo della Croce rossa a Riad assieme ai prigionieri americani. Il protocollo era rigido e nessuno ci poteva avvicinare. D’un tratto vidi salire sull’aereo il generale Mario Arpino (a capo della missione italiana, l’«Operazione Locusta», e successivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa, ndr) che in barba alle disposizioni si sedette accanto a me. Ci abbracciammo e io mi misi a piangere: era il primo italiano che vedevo. Solo allora mi sentii libero. Poi il ricordo è della grande vicinanza degli italiani a me e Maurizio, che rividi solo più tardi a bordo di una nave ospedale nel Barhein, sulla quale fummo sottoposti ad un check up generale prima del rimpatrio».

Bellini e la moglie in Kuwait nel 2016 per la celebrazione dei 25 anni della liberazione del Paese arabo - Foto archivio gen. Gianmarco Bellini © www.giornaledibrescia.it
Bellini e la moglie in Kuwait nel 2016 per la celebrazione dei 25 anni della liberazione del Paese arabo - Foto archivio gen. Gianmarco Bellini © www.giornaledibrescia.it

L’Italia figurava in missione di polizia internazionale, per questo non le è mai stato riconosciuto lo status di prigioniero di guerra... «Dal punto di vista legale, no. Ho combattuto una mia battaglia personale, credo legittima, per il riconoscimento, tanto più che il nostro impegno era conseguente a una disposizione dell’Onu per liberare il Kuwait, che portammo a termine. Eppure quei 47 giorni di prigionia non sono mai stati considerati tali».

Al 2014, tuttavia, risale un fatto che ha quantomeno un forte valore simbolico. L'ormai ex generale Bellini donò all'Aeronautica Militare la sua casacca gialla, unico indumento che gli fu assegnato durante la prigionia e su cui campeggiano le lettere «PW», iniziali di «prisoner (of) war», prigioniero di guerra. L'Arma azzura, di contro, donò a Bellini il documento della Croce Rossa Internazionale relativo alla sua liberazione in cui pure veniva qualificato proprio come prigioniero di guerra.

Cosa le manca del suo passato in divisa? «Lo spirito di amicizia e fratellanza coi colleghi. Un senso che ho trovato solo in ambito militare. Mi sono arruolato perché intuivo di amare il volo, anche se non avevo mai volato prima. Scoprii poi i valori di servizio e spirito di sacrificio che ho condiviso e insegnato ai miei figli».

All’epoca abitava a Borgosatollo, poi tornò da comandante del 6° Stormo a Ghedi: che legame conserva con Brescia? «I miei più grandi amici sono a Brescia. Sono iscritto al Club 124 delle Frecce Tricolori dell'ex maresciallo Turchetti (con sede a Montchiari, ndr) e quando torno in Italia passo sempre a Borgosatollo e Ghedi. Ho ricordi splendidi della terra bresciana, della sua gente laboriosa e di grande spirito».

Già, ma lei ora vive in America... «Uno dei miei ultimi incarichi nell’Aeronautica Militare (lasciata nel 2011) fu alla base Nato di Norfolk. E qui in Virginia conobbi nel 2005 mia moglie, Gilda Di Domenico, italiana che viveva qui da tempo. Nel 2009 ci siamo sposati. Lei ha un piccolo ma apprezzato ristorante italiano (Il Rigoletto, approdato anche ad un programma tv, ndr) mentre io sono stato istruttore di volo: con orgoglio ho visto giovani da me brevettati diventare piloti civili. Ma dovevo lavorare su aerei troppo lenti per le mie abitudini: il richiamo di quelli più veloci mi ha fatto divenire pilota civile, prima su tratte regional della United, e ora per una società cargo.

L’Italia oltre a conferirle una medaglia d’argento al valore militare per aver concluso la sua missione nel ’91, nel 2015 l’ha nominata console onorario. «Ne sono riconoscente. Ho cittadinanza italiana e americana. Ma dentro, nel cuore, nel sangue e nello spirito mi sento italiano».

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