Whatsapp, notifiche, dati e il boom di Telegram e Signal
Alzi la mano chi non ha (ancora) ricevuto su Whatsapp la notifica con cui la società dell’omonima piattaforma di messaggistica annuncia modifiche alle pregresse regole connesse al trattamento e, in particolare all'utilizzo, dei dati relativi ai propri utenti.
Ma cosa vuol dire esattamente quell'informativa? Cosa comporta? E cosa è successo subito dopo la sua diffusione? Uno tsunami, complici alcuni eventi concomitanti. Ma vediamolo un passo alla volta.
La notifica
Milioni di utenti dell’applicazione si sono visti recapitare nell’arco delle ultime settimane una comunicazione relativa alle mutate condizioni di utilizzo del sistema di messaggistica. Una variazione, destinata in origine a scattare l'8 febbraio, che ha sollevato un pandemonio a livello planetario, che ha avuto due conseguenze immediate. Anzitutto, una diaspora, un abbandono in massa di Whatsapp - specie Oltreoceano - con connessa migrazione ad altri due social: Telegram (che ha guadagnato 25 milioni di utenti in tre giorni, toccando quota 525 milioni) e Signal, tra i più liberi sistemi di chat su piazza (cresciuto in pochi giorni di circa 40 milioni di iscritti, passando a 50 milioni di utenti secondo le stime). In conseguenza di questa reazione forse inattesa, è arrivata la contromossa di Zuckerberg - l’uomo di Facebook, al quale tuttavia dal 2014 fa capo anche Whatsapp –, vale a dire il rinvio al 15 maggio di ogni variazione nelle regole connesse ai dati degli utilizzatori sulla piattaforma del telefonino in verde.
L’asse Facebook-Whatsapp
Alla base di tutto, infatti, sta tra le altre cose la modifica delle condizioni con cui le due società possono scambiarsi i dati dei relativi utenti. Una scelta volta a moltiplicare per le due «big tech» (in primis per Facebook) le opportunità di businness sul fronte commerciale, grazie ad una disponibilità incrociata di informazioni e profilazioni di utenti che fanno gola al mondo degli investitori pubblicitari, del marketing e non solo. A fronte di questo una cosa va detta da subito: nulla varia per la riservatezza dei messaggi in sé, che restano crittografati secondo il protocollo end-to-end già in uso.
Il Gdpr ci salva
Gli utenti europei possono tuttavia proseguire nell’uso del sistema di messaggistica più diffuso con relativa serenità. Nessuna modifica alla modalità di condivisione dei dati può essere efficace nel Paesi dell’Ue, dove è in vigore il Gdpr, il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali. La precisazione arriva dalla stessa Whatsapp, dopo la diffusione dell'avviso agli utenti sull'aggiornamento dei termini di servizio e l'informativa sulla privacy. Una variazione, va detto, che riguarda peraltro in particolare WhatsApp Business, cioè il servizio di chat per le imprese. «Non ci sono modifiche alle modalità di condivisione dei dati di WhatsApp nella Regione europea, incluso il Regno Unito, derivanti dall'aggiornamento dei Termini di servizio e dall'Informativa sulla privacy - spiega un portavoce di WhatsApp - Non condividiamo i dati degli utenti dell'area europea con Facebook allo scopo di consentire a Facebook di utilizzare tali dati per migliorare i propri prodotti o le proprie pubblicità». I principali aggiornamenti dei termini di servizio chiariscono le modalità del trattamento dei dati e, in riferimento alle aziende che usano WhatsApp Business, come possono utilizzare i servizi disponibili su Facebook per gestire le chat.
«Oggi, Facebook non usa le informazioni del tuo account WhatsApp per migliorare le tue esperienze con i prodotti di Facebook - scrive su Twitter Niamh Sweeny, Director of Policy for WhatsApp, EMEA -. Qualora in futuro decidessimo di condividere tali dati con le aziende di Facebook per questo scopo, lo faremo solo dopo aver raggiunto un accordo con la commissione per la protezione dei dati irlandese».
1/5 I don't usually tweet about work-related issues, but this one is important:
— Niamh Sweeney (@NiamhSweeneyNYC) January 7, 2021
Certo resta un po’ di confusione sollevata dalla pioggia di notifiche, circostanza su cui lo stesso Garante per la Privacy italiano è intervenuto. L’organismo, presieduto da Pasquale Stanzione, ha affermato in una nota diffusa questa settimana che il messaggio con cui Whatsapp ha avvertito i propri utenti degli aggiornamenti in questione, «in particolare riguardo alla condivisione dei dati» con Facebook, e la stessa informativa sul trattamento che verrà fatto dei loro dati personali, «sono poco chiari e intelligibili e devono essere valutati attentamente alla luce della disciplina in materia di privacy». È il motivo per cui il Garante ha portato la questione all'attenzione dell'Edpb, il Board che riunisce le Autorità privacy europee, riservandosi comunque «di intervenire, in via d'urgenza, per tutelare gli utenti italiani». Rilievi, quelli del Garante, ai quali, per inciso, non è mancata una replica della stessa Whatsapp: «Vogliamo che sia chiaro che l'aggiornamento dell'informativa sulla privacy non influisce in alcun modo sulla privacy dei messaggi scambiati con amici o familiari e non richiede agli utenti italiani di accettare nuove modalità di condivisione dei dati con Facebook. Questo aggiornamento - fanno sapere dalla società - fornisce, invece, ulteriore trasparenza su come raccogliamo e utilizziamo i dati, oltre a chiarire le modifiche relative alla messaggistica con le aziende su Whatsapp, che è facoltativa. Restiamo impegnati a fornire a tutti in Italia una messaggistica privata, crittografata end-to-end».
Il boom di Telegram
Se in Italia e in Europa, tutto sommato, le cose vanno relativamente bene, non così nel resto del mondo dove le previsioni legislative per il trattamento dei dati degli utenti sono meno stringenti. Di qui la reazione, con contestuale migrazione ad altre piattaforme di messaggistica, che ha avuto anche importanti testimonial. Lo stesso Pavel Durov, il russo fondatore e Ceo di Telegram, ha elencato con un post sulla sua stessa creatura i 12 account di capi di Stato attivati in sole 72 ore. Tra questi il brasiliano Bolsonaro (@jairbolsonarobrasil), il turco Erdogan (@RTErdogan) e il francese Macron (@emmanuelmacron).
«Siamo onorati che i leader politici - scrive Durov -, così come numerose organizzazioni pubbliche, si affidino a Telegram per combattere la disinformazione e diffondere la consapevolezza su questioni importanti nelle loro società. A differenza di altre reti, Telegram non utilizza algoritmi non trasparenti per decidere se un abbonato vedrà i contenuti a cui si è iscritto o meno. Di conseguenza, i canali di Telegram sono l'unico modo diretto per gli opinion leader di connettersi in modo affidabile con il proprio pubblico. Rimuovendo gli algoritmi manipolativi che sono diventati sinonimo delle piattaforme tecnologiche degli anni 2010, i canali di Telegram ripristinano la trasparenza e l'integrità della comunicazione pubblica "uno-a-molti». Tutto vero, ma proprio mentre nel mare magno dei social si sviluppa la tempesta perfetta, emerge che anche Telegram non sarebbe così sicuro. Secondo il sito specializzato ArsTechnica, infatti, se si usa la chat da un dispositivo Android o, in alcuni casi, anche da un iPhone, Telegram consente a malintenzionati di trovare facilmente la posizione di un utente che abilita una particolare funzione, cioè quella che consente alle persone geograficamente vicine di connettersi (si chiama People Nearby). La scoperta è del ricercatore Ahmed Hassan che ha comunicato al team di Telegram la vulnerabilità che consentirebbe di individuare anche l'indirizzo di casa di un utente.
Il caso Trump
Un intervento (a gamba tesa) quello di Durov che peraltro collega le scelte di Whatsapp e Facebook, alle decisioni contestuali e non meno controverse di Twitter e della stessa Facebook, maturate dopo il clamoroso assalto a Capitol Hill, con la disattivazione degli account di Trump - volenti o nolenti, tuttora presidente in carica degli Stati Uniti d’America – dopo i post risultati determinanti per la sollevazione dei suoi sostenitori. Un episodio che non ha mancato di suscitare altre reazioni nel mondo delle chat via app. Basti pensare che lo stesso fondatore e patron di Twitter, Jack Dorsey, ha dichiarato la decisione di bandire il presidente uscente dalla piattaforma «quella giusta», ma ha riconosciuto che essa costituisce comunque un «fallimento» e «stabilisce un precedente pericoloso» nell'ambito del potere detenuto dalle grandi aziende.
I do not celebrate or feel pride in our having to ban @realDonaldTrump from Twitter, or how we got here. After a clear warning we’d take this action, we made a decision with the best information we had based on threats to physical safety both on and off Twitter. Was this correct?
— jack (@jack) January 14, 2021
In questo quadro si inserisce anche un altro fatto contestuale, il passaggio, per dissenso e volto ad aggirare il silenziamento per violazione delle policy, di molti dei sostenitori di The Donald, a Parler, la versione considerata di destra di Facebook. Ebbene, dopo l’accaduto, alla luce del fatto che molti dei contatti fra i partecipanti all’assalto erano ruotati proprio su questa app, Amazon ha spento i server su cui erano appoggiati i sistemi informatici della società americana, di fatto spegnendo la piattaforma. Il ceo dell’azienda, in uno dei suoi ultimi interventi, ha ammesso che Parler potrebbe non tornare più, complice anche la contestuale decisione dei principali store di applicazioni – quelli di Google per i dispositivi Android e di Apple per quelli basati su sistema iOs – di rimuovere l’app dal novero di quelle scaricabili. Tutti aspetti che interrogano profondamente la coscienza di chi vede società private autoregolarsi e compiere atti che hanno un peso enorme sulle scelte politiche e ricadute incalcolabili sulla società civile. Da capi politici come Angela Merkel alla Commissione europea o all'Alto Rappresentante Ue Josep Borrell, molti risultano concordi nel sottolineare la necessità di una maggiore regolamentazione dei colossi digitali purché essa avvenga nello «scrupoloso rispetto della libertà di espressione». Ma pure gli investitori hanno evidenziato la criticità dell'accaduto sui listini di Wall Street: Twitter è affondata perdendo il 10,12% subito dopo la decisione, mentre Facebook ha ceduto il 3,30%, e nel corso della giornata del dopo-Capito Hill sono andate in rosso anche Apple, Amazon e Google.
Musk e l'endorsement per Signal
Il tutto avveniva quasi nelle stesse ore in cui di contro si registrava una impennata di download nei negozi digitali per Signal, conseguente alle critiche mosse a WhatsApp. A incidere sull’inatteso boom dell’applicazione sin qui considerata secondaria, è stato in questo caso l'endorsement di Elon Musk, attualmente l'uomo più ricco del mondo e patron di Tesla e Space X. Il visionario imprenditore – controverso: è tra coloro che manifestano avversione alle misure anti-Covid - si è limitato a twittare due paroline: «Use Signal».
Use Signal
— Elon Musk (@elonmusk) January 7, 2021
E tanto è bastato per dirottare verso il social un numero impressionante di utenti, complice il fatto che il tycoon vanta 42,5 milioni di follower. A quanto pare la società che gestisce la ora gettonatissima piattaforma di messaggistica non era preparata a questa improvvisa botta di popolarità, tanto che sulle prime è andata in crisi. Il 15 gennaio, proprio il giorno in cui ha festeggiato il traguardo di 50 milioni di download, ha accusato problemi tecnici dovuti forse all'afflusso imprevisto di nuovi utenti. Su Twitter, Signal si è impegnata a lavorare «il più rapidamente possibile per aumentare la capacità e gestire i picchi di traffico».
Signal is experiencing technical difficulties. We are working hard to restore service as quickly as possible.
— Signal (@signalapp) January 15, 2021
App gratuita e basata su un sistema di crittografia end-to-end proprietario tra i primi introdotti in analoghe piattaforme, ha fatto della privacy una bandiera. Non senza conseguenze e mal di pancia: spesso, infatti, il livello di segretezza dei contenuti scambiati fra gli utenti è così elevato da risultare molto apprezzato anche da realtà criminali. Tra i vantaggi spiccioli, ma non banali, che offre c’è pure la possibilità di disabilitare le notifiche di lettura (l’equivalente delle spunte blu di Whatsapp, per intenderci) senza pregiudicare l’attività online dell’utente che non vuole essere disturbato da interlocutori non graditi, escludendo anche la verifica dell’ultima volta che un utente è stato online. Da ultimo, questo sistema di messaggistica non è legato ad un’utenza telefonica, come Whatsapp o Telegram, e questo lo rende utilizzabile senza passaggi ulteriori anche sui tablet.
In conclusione
In pochi giorni, ci siamo dunque trovati catapultati in una sorta di effetto domino nel grande gioco di piattaforme di messaggistica e social, i cui confini, talvolta, sono meno netti di un tempo. Da un lato società private possono silenziare capi di Stato spegnendo loro lo strumento di contatto diretto con milioni di follower, gli stessi che un tempo si sarebbero detti ancor prima elettori; dall’altro magnati possono orientare masse di utenti digitali, quelli che una volta erano anzitutto cittadini, da una piattaforma di messaggistica all’altra, spostando indirettamente capitali e investimenti; e infine società possono decidere con un aut aut da molti accettato passivamente di scambiare tra loro dati strutturati relativi alle nostre abitudini di consumo e di fruitori di servizi digitali per ottimizzare i propri strumenti di business. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, però, per la prima volta forse ci siamo resi conto che un nostro consenso (o meno) al trattamento di dati e informazioni, non è un fatto privo di ricadute. Anzi.
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