Valerio Nicolosi: «La paura e l'orgoglio degli ucraini in guerra»

Per Valerio Nicolosi i sentimenti che riassumono le migliaia di esperienze esistenziali sotto le bombe o in fuga dall’Ucraina sono due: la paura e l’orgoglio. Sono le traiettorie sulle quali si dipana la storia di Katia e si muove anche l’esodo di donne e bambini che il reporter romano ha seguito dall’inizio del conflitto, prima nei sotterranei di Kiev e poi alle frontiere con la Polonia e la Romania.
«A me interessano le persone, nei miei reportage cerco sempre di dare un taglio umano ai conflitti - dice -. In Ucraina ho visto questo: negli ucraini si intrecciano la paura e l’orgoglio, nella volontà condivisa di resistere. Perché la guerra ti mette sempre davanti a scelte nette, e così sentimenti contrastanti si mischiano».
Valerio Nicolosi è uno dei giornalisti italiani più seguiti per il conflitto in Ucraina. Redattore della rivista MicroMega, come fotoreporter e regista ha documentato le migrazioni lungo la rotta balcanica e in Medio Oriente. All’inizio della guerra ha lanciato il suo podcast da Kiev per MicroMega, «Voci da Kiev sotto assedio», cui ne è seguito un altro - «Fuga dall’Ucraina» -, entrambi in cima alle classifiche di Spotify per vari giorni. Sono puntate da dieci minuti o un quarto d'ora in cui Nicolosi racconta quello che vede e fa ascoltare cosa e chi c'è intorno a lui. E così la guerra diventa suono, voci e rumori, spesso rivissuti in diretta con video su Instagram.
Mercoledì Nicolosi avrebbe dovuto partecipare di persona alla presentazione del libro di Caterina Bonvicini «Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie» alla Cascina Parco Gallo, in città, ma per un imprevisto è dovuto rientrare a Roma e si è collegato da lì. Lo abbiamo raggiunto per telefono.
Hai vissuto in un bunker per raccontare la guerra. Com’è, vista da lì?
Da dentro si ha una visione parziale di quello che accade fuori. Spesso dovevo chiedere conferma delle notizie in redazione perché non potevo muovermi dallo scantinato. Quindi anche se sei testimone diretto degli avvenimenti sei limitato. A Kiev ero lì, sotto i bombardamenti, sentivo i combattimenti, tutti avevano paura di muoversi con i russi così vicini. Ogni volta che provavo a tirare fuori la telecamera, qualcuno mi fermava e diceva che non potevo riprendere. C’era molta tensione.
Quindi sei passato all’audio.
Avevo già fatto due serie di podcast, ma sì, non è il mio mezzo principale. Vista la situazione un collega mi ha detto: tu mi parli o mandi audio su Whatsapp e io sbobino. E a quel punto abbiamo deciso invece di fare un podcast, che è un lavoro molto diverso rispetto a un video o a uno dei lunghi reportage che sono abituato a scrivere. Il podcast è una lavoro di sottrazione, non hai immagini ma rumori: è la voce che ti guida e porta dentro la storia, attraverso emozioni e sensazioni che riesce a veicolare.
Con la tua, di voce, hai portato gli ascoltatori dentro e fuori dall'Ucraina, sui confini. Sei appena tornato da Siret, in Romania, che è una zona di cui si parla meno, anche se più della Moldavia, perché tutti sono concentrati sulla Polonia dove il numero dei profughi è maggiore. Cosa hai visto lì che noi non vediamo?
Che in queste settimane stiamo dimostrando di poter accogliere se c'è la volontà, specialmente quella dell’Unione europea. È in corso un esodo mai visto, con 3,5 milioni di persone fuggite in un mese dall’Ucraina secondo i dati dell’Unhcr. Teniamo presente che nel 2016 in Italia si parlava di invasione per l’ingresso dei profughi siriani in Europa e i numeri non erano minimamente paragonabili.
Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina si ripete che questa guerra ci colpisce molto più di tante altre perché è più vicina geograficamente. Tu hai documentato altre zone di conflitto, penso solo alla Striscia di Gaza: in cosa questa guerra è diversa dalle altre secondo te?
Lavorativamente per me è stata abbastanza complicata perché a Kiev non ero mai stato, mentre Gaza la conosco a memoria. Sono arrivato a poche ore dall’inizio dell’attacco, che si pensava dovesse essere il 28 febbraio, quindi speravo di avere qualche giorno per ambientarmi, trovare un fixer (la persona che aiuta i giornalisti stranieri a orientarsi sul campo, ndr) e recuperare il giubbotto antiproiettile. Non ho potuto fare nulla di tutto ciò. Ma è vero che questa guerra è più vicina a noi e ci spaventa di più. Abbiamo paura che la guerra diventi nucleare o che la Nato intervenga, e quindi saremmo coinvolti direttamente. Ci immedesimiamo anche molto negli ucraini, li sentiamo molto simili a noi. Mentre ti parlo, per esempio, c’è una ragazza sul treno davanti a me con un violino in mano: viene dall’Ucraina, fino a pochi giorni fa stava sotto le bombe. Apparentemente sta bene, rispetto a tante scene che ho visto sulla rotta balcanica. Ma le bombe restano bombe. E quella ragazza potrei essere io.
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