Soffriamo di dipendenza dagli smartphone, ammettiamolo
«Mi chiamo Kevin e ho un problema col telefono». Inizia così, come se fosse una confessione durante una seduta di un gruppo di alcolisti anonimi, la testimonianza pubblicata da Kevin Rose sul New York Times.
L’autore spiega di non volere chiamare il suo problema una «dipendenza» perché gli sembra che sia una definizione troppo sterile «per descrivere ciò che sta accadendo ai nostri cervelli nell’era degli smartphone».
Rose si augura che un giorno riusciremo a gestire correttamente il nostro rapporto con i telefonini, ma per il momento la situazione che descrive è drammatica. Incapacità di leggere i libri, di guardare film di lunga durata o di intrattenere conversazioni senza continue interruzioni. Il fatto è che quando si entra in una spirale simile, con l’impossibilità di fatto di abbandonare lo schermo, è difficile trovare rimedi. L’autore racconta di avere deciso, per esempio, di disinstallare l’app di Twitter ogni fine settimana, senza successo. C’è poi chi mette limiti di tempo a Facebook, ad esempio, o chi controlla scrupolosamente il tempo di utilizzo settimanale, ma l’esperienza quotidiana di molti di noi insegna come sia molto difficile resistere alla voglia di dare una controllatina ai messaggi, una scrollata tra i like e i post degli altri.
Facendosi aiutare da Catherine Price, autrice del libro «How to Break Up With Your Phone» (come abbandonare il tuo telefono), Rose ha dunque iniziato una terapia per disintossicarsi che ricorda quella di un fumatore alle prese con un libro per abbandonare le sigarette. Senza entrare in un percorso da centro di recupero - servizi peraltro già disponibili per chi vuole interrompere la dipendenza da schermo, anche nel bresciano - Rose è partito dal suo tempo di utilizzo medio giornaliero, 5 ore e 37 minuti, per provare a spezzare la routine che lo legava al telefonino, concentrando la sua attenzione su altre cose.
La descrizione del percorso è molto interessante. Si parte con le domande impostate da Rose per sbloccare il telefono, perché? a che scopo? cos’altro?, fino alla diagnostica delle abitudini legate all’uso dello smartphone, in cui molti si possono riconoscere. Le occasioni per dare un’occhiata sono molteplici, quando ci si lava i denti, quando si fa un prelievo al bancomat, quando si esce di casa. Ogni momento vuoto va riempito con il nostro personale device, in sostanza, e anche se non c’è un momento vuoto di fatto lo si crea.
Fateci caso: provate a camminare per strada tenendo rigorosamente il telefono in tasca, nello zaino o in borsa e controllate quanti altri stanno camminando guardando il telefono. Ricorda molto il film Wall-E, in cui gli umani circolano con lo sguardo perennemente incollato a uno schermo. E ricorda pure, paragone più inquietante, gli zombie. Provate anche a controllare le espressioni di chi è fisso sullo smartphone: qualcuno sorride, qualcuno affetta una certa concentrazione o preoccupazione, qualcuno riflette lentamente su cosa digitare. Una serie di maschere, diventate parte del nostro quotidiano.
La tecnica usata da Rose prevede che si faccia pulizia sullo smartphone, tenendo le cose che riteniamo più utili ed eliminando le fonti di distrazione. Niente social, che peraltro secondo diversi studi aumentano ansia, depressione e disturbi comportamentali, sì alle mail e ai messaggi, ma via tutti i giochi. Per mettere il telefonino in carica, poi, ha iniziato a usare una sorta di piccola cassaforte, il che ha ridotto l’utilizzo notturno, per esempio. Tenerlo lontano dalla camera da letto, oltre a diminuire gli effetti negativi delle onde elettromagnetiche (anche se ancora non ci sono studi che dimostrino in maniera inoppugnabile il rapporto causa effetto tra uso dei device e tumori), contribuisce a evitare i disturbi del sonno.
Poi si inizia con le attività per fare altro, eliminando il vizio della scrollatina. Rose prova la ceramica, un modo per tenere occupate anche le mani, e arriva a sperimentare un distacco dal telefonino di 48 ore e scopre - complice una breve vacanza - che sta benissimo, a parte le piccole complicazioni legate al non avere alcuni servizi a portata di mano, tipo Google Maps. Leggere libri, fare le parole crociate, accendere un fuoco, guardare le stelle, lasciando perdere le storie su Instagram. È come se si passasse dal mangiare compulsivamente a qualsiasi ora qualsiasi tipo di cibo, molto spesso junk food dannoso, ma altamente soddisfacente nel breve periodo, a una gestione dei pasti razionale, curata, con ricette varie e equilibrate.
La lontananza dai social è un buon coaudivante, in questo senso. L’altra cosa che aiuta è la presa di coscienza del proprio rapporto con lo smartphone, provando a scardinare i meccanismi che ci legano così tanto a questo oggetto. Una frase di Catherine Price è illuminante: «La tua vità è ciò a cui tu presti attenzione. Se vuoi passarla giocando ai video game o su Twitter è affare tuo, ma dev’essere una tua scelta consapevole».
Rose conclude l’articolo descrivendo come abbia iniziato a provare maggiore interesse nel mondo reale, a guardare le persone negli occhi e ad ascoltarle quando parlano. «Inizio a sentirmi umano, di nuovo», scrive in fondo al pezzo.
Immedesimarsi nella sua esperienza è molto facile. Secondo una ricerca della società statunitense dscout, arriviamo a cliccare sullo schermo 5.427 volte al giorno. Riconoscere il fatto che ci sia un problema legato all’uso compulsivo degli smartphone e prendersi la briga di affrontarlo è un’azione a cui prima o poi molti di noi saranno chiamati. Se non per noi stessi, per i nostri figli e le nostre figlie, che troppo spesso iniziamo fin da piccoli a questa subdola dipendenza, ignorando gli allarmi dell'Ats. Ma se adesso abbiamo gli strumenti per farlo, in modo non particolarmente traumatico, come racconta Kevin Rose, non è detto che tra qualche anno sia ancora così.
Ps Se avete letto questo articolo su uno smartphone, provate a metterlo da parte e calcolate quante ore riuscite a passare senza controllarlo.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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