Italia e Estero

Omicidio Yara, chiesto l'ergastolo per Bossetti

Chiesto l'ergastolo per Massimo Giuseppe Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio
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Non è stato accertato un movente, né una «dinamica che si possa affermare con sicurezza» dell’omicidio della tredicenne ginnasta Yara Gambirasio, ma esiste «il faro», «la prova» contro Massimo Bossetti, muratore carpentiere di Mapello: il suo dna sul corpo della vittima e «un corollario di indizi gravi, precisi e concordanti». 

Cioè i suoi tabulati telefonici, le immagini del suo furgone nelle telecamere di sorveglianza, le fibre di tessuto del furgone sul corpo della vittima. Ed è per questo che, dopo una requisitoria fiume, durante due udienze, la pubblica accusa chiede per l’unico imputato, Massimo Giuseppe Bossetti, l’ergastolo, con mesi di isolamento diurno. 

Lui accoglie la richiesta, che pure aveva abbondantemente metabolizzato, imperturbabile, accanto ai suoi avvocati, con indosso una polo a righe orizzontali marroni e nere: talvolta sembra sorridere, ma forse lo fa per allentare la tensione quando il pm lo accusa di «avere mentito per tutta la vita, tanto che era chiamato il Favola».

Questo serve all’accusa per dire che «in questo processo ha sempre negato tutto, ma in modo inconcludente». La presunta calunnia a carico di un suo collega di lavoro, Massimo Maggioni, «serviva per accusarlo di un delitto che lui sapeva bene avere commesso». Un delitto «doloso e pluriaggravato». Su tutte l’aggravante della crudeltà. «Si è voluto infliggere particolare dolore e ci si è riusciti - scandisce -: non vi è dubbio che l’omicidio sia volontario perché abbandonandola in quel campo, si è causata volontariamente la morte» della ragazzina. 

«Non è possibile individuare un movente certo», ma questo argomenta Letizia Ruggeri, «non dà meno significato», ovvero non cambia nulla all’impianto dell’accusa, che richiama dalle tenebre del passato il delitto della praticante commercialista Paola Mostosi, uccisa nel 2002 sempre nella Bergamasca dal camionista Roberto Paribello, che la tramortì e la strangolò dopo averla caricata a bordo del suo camion alla fine di un’intera giornata di lavoro, ne buttò il corpo in un canale irriguo e, tornato a casa, regalò il cellulare della vittima. 

Vicende certo con dei risvolti diversi perché Paribello, che si assunse la responsabilità del delitto pur senza mai chiarirne il movente, ma caratterizzate dalla stessa «incapacità di controllarsi» dei due uomini. 

«Totale incapacità di autocontrollo»: gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini cercheranno ora di smontare queste accuse.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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