Malato di Sla ha scelto di dormire fino all'arrivo della morte
Dino Bettamin ha scelto di dormire fino all'ultimo istante, di restare sedato fino a quando una crisi di cuore l'ha strappato a quasi 71 anni da una vita che l'aveva portato a fare i conti con la Sla, una malattia degenerativa che nelle ultime settimane aveva fatto breccia anche nel suo animo causandogli uno stato di angoscia profonda.
Bettamin è morto nella sua casa a Montebelluna, assistito dalla moglie, dai due figli e dal personale sanitario. «Dino - dice l'infermiera Anna Tabarin, sua angelo custode da alcuni anni assieme a un collega - non ha mai chiesto di morire. Ha chiesto di dormire fino alla fine. Lui era profondamente religioso e si è affidato a Dio. Sapeva che sarebbe potuto morire dopo un giorno o dopo cinque mesi. È morto lunedì alle 16.15».
«La sua volontà - sottolinea don Antonio Genovese, parroco del Duomo - era di non staccare la spina ma di essere lasciato alla volontà di Dio. Voleva essere addormentato per poter lasciare spazio alla volontà del Signore». Un desiderio di «andare al Padre» che don Antonio accosta a quello di Giovanni
Paolo II nella malattia. E prima di essere addormentato Dino ha pregato e ricevuto i sacramenti.
La parola «eutanasia» è fuori dalla storia di un macellaio che cinque anni fa ha scoperto di avere la Sla, che dopo un ricovero ospedaliero era uscito con una ipotesi di vita breve ma che per due anni era riuscito a trovare la strada per un ritorno a una «normalità» aiutata da una macchinetta per la respirazione e una sedia a rotelle. Momenti felici con la moglie, i figli e i nipoti, con gli amici, con una cagnetta bianca che aveva un posto riservato nella carrozzina per andare in giro a mercatini.
La moglie, Maria Pellizzari, nella compostezza del dolore, dice forte: «Non è eutanasia. È stata una scelta di vita sua e nostra». È stato un desiderio, quello di poter dormire fino all'arrivo della morte, all'insegna della volontà di una «vita dignitosa», come ricorda Anna; di un vivere che però non riusciva più a fare pace con un malessere senza fondo a livello psicologico e che non trovava soluzione in alcun tipo di intervento. E l'angoscia profonda, assieme alla «fame d'aria», è uno di quei «sintomi refrattari», come si usa dire nel linguaggio sanitario, che possono portare all'applicazione del protocollo della sedazione palliativa o «terminale». Un protocollo applicato per la prima volta per un malato di Sla. Tutto diverso, comunque, dalla soddisfazione di un desiderio di porre fine alla propria vita. «Non si parli di eutanasia - dice Francesco Benazzi, direttore generale dell'Ulss 2 -. Il paziente può chiedere di sospendere certe terapie perché oltrepassarle sarebbe un accanimento terapeutico». Per Benazzi, gli operatori sanitari coinvolti «hanno assolto il loro compito in scienza e coscienza. Un paziente può dire basta con i farmaci, lenite il mio dolore e idratatemi». La sacca per l'idratazione è rimasta attaccata a Dino fino all'ultimo minuto e solo un'ora dopo il decesso, constatato da un medico, è stata staccata la macchina per la respirazione.
È stato una sorta di «testamento biologico» quello di Dino, ripetuto nei brevi momenti di risveglio. Un tema caro al governatore veneto Luca Zaia: «ho il massimo rispetto della scelta di questa persona. Personalmente credo che il testamento biologico debba diventare realtà in un paese civile quale
l'Italia si ritiene». Per Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni per la libertà scientifica, il caso di Dino «conferma ciò che abbiamo conquistato in un decennio di lotte al fianco di Piergiorgio Welby, Peppino Englaro e tanti altri malati: il diritto costituzionalmente garantito a sospendere le terapie sotto sedazione. Nel recente caso del nostro iscritto Walter Piludu fu un magistrato a imporre alla Asl di Cagliari di rispettare la scelta del malato.
Nel caso di Treviso, sono stati direttamente i medici, nel pieno e rigoroso rispetto della propria deontologia professionale, a scegliere di rispettare la volontà del malato».
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