Italia e Estero

L'inferno è ben prima del barcone

Bah Abdoulaye A ha impiegato dieci mesi per raggiungere Lampedusa dalla Guinea, passando per la Libia
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«Fai uscire il ragazzo. Fallo uscire subito dal Paese, perché se lo prendono lo torturano». Non c’era tempo per riflettere. Bisognava trovare in fretta alcune migliaia di euro in contanti, mettere quattro vestiti in un borsone e salire sul primo camion in partenza per il Paese vicino. Fu così che il 29 luglio 2010 il diciassettenne Bah Abdoulaye A lasciò la Guinea Conakry, diretto in Mali. Un caso. Poteva benissimo arrivare in qualsiasi altro Paese dell’Africa occidentale. In realtà, non aveva alcuna destinazione in mente, se non quell’urgenza di lasciare la Guinea al più presto, perché sentiva sul collo il fiato degli assassini.

Mai e poi mai avrebbe immaginare di sbarcare a Lampedusa, dieci mesi più tardi, dopo aver attraversato un mare minaccioso. «Non sapevo nemmeno che in Libia ci fosse il mare, credevo fosse tutto deserto» dice. 
Il racconto di Bah è lungo, dettagliato, quasi maniacale. Ricorda ogni particolare, ogni minuzia delle umilizioni, delle torture, delle privazioni cui è stato vittima nei mesi di deserto e di prigione trascorsi per giungere a Tripoli.
Anche ora, a quasi quattro anni dal suo arrivo in Italia, fatica a dormire la notte. E, di giorno, ascoltando alla radio il racconto delle tragedie nel Mediterraneo, perde la concentrazione su quello che sta facendo.

Bah Abdoulaye A
Bah Abdoulaye A

Bah è ancora molto scosso. Nel tempo, è riuscito a trovare un po’ di pace scrivendo un lungo diario di viaggio. Mentre racconta del potere taumaturgico della scrittura, si ricordano le parole di Isabelle Allende ne «La casa degli spiriti»: «La scrittura per me è un disperato tentativo di preservare la memoria. I ricordi restano per le strade, come brandelli lacerati del mio vestito. Scrivo, perché l’oblio non mi sconfigga».

Parole che vorrebbe condividere, «perché tutti devono sapere quello che accade. Tutti devono sapere che sono pochi, tra noi, quelli che partono solo perché hanno fame. Si può rimanere e lottare per lo sviluppo del proprio paese. Ma questo non è possibile, se al potere ci sono persone sostenute dalle lobby internazionali e alla popolazione non viene data alcuna possibilità, nemmeno quella di imparare a leggere e a scrivere perché potrebbe essere pericoloso. Non è possibile, se chi protesta viene ammazzato da polizia ed esercito incaricati di stanare anche dentro le mura di casa gli oppositori dei regimi». Bah è un fiume in piena: «In questi giorni, ancor più drammatici del solito per quello che è accaduto nel Mediterraneo, l’Europa si chiede come fare per fermare i barconi. Certo, nell’immediato si deve far qualcosa. Ma l’emorragia non si arresterà se non si permetterà ai popoli africani di autodeterminarsi. Dobbiamo essere noi, laggiù, a lottare. Ma dobbiamo essere liberi di farlo perché è vero che abbiamo fame, ma abbiamo soprattutto sete di democrazia».

Con Bah, che ora è in possesso di un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria della durata di cinque anni, ritorniamo a Bamako, prima meta del suo viaggio di fuga. Era l’estate del 2010. «Cosa faccio qui? mi sono chiesto quando sono arrivato nella capitale del Mali. Mi è venuto in mente che avevo un conoscente nel Benin, titolare di un albergo, ed ho ripreso il cammino». Pochi giorni nel Paese africano, poi di nuovo in viaggio. Meta: la Libia. Raggiunta a tratti, con camion e autobus e l’ultimo pezzo stipato con una quarantina di altri disperati sul cassone di un pick up, fino alla sosta nel primo villaggio del sud della Libia, nella regione del Fezzan. «Era il primo settembre 2010» sottolinea. L’accoglienza nel Paese che allora era ancora di Gheddafi non fu certo delle migliori: attaccati dai militari a colpi di fucile, vennero rinchiusi in un campo recintato con filo spinato dal quale, però, Bah riuscì a fuggire insieme ad un altro giovane nigerino.

«Dalle sette della sera fino alle undici del mattino dopo abbiamo camminato nel deserto, rotolandoci nella sabbia fino a mimetizzarci ogni volta che si sentivano le jeep dei militari - continua -. Ero stremato, la gola secca, la bocca screpolata e arsa dalla sete». 

Bah si attaccava disperatamente alle bottiglie di plastica vuote, nelle quali non c’era più acqua, ma solo la sua memoria. Bastava quella per dare la sensazione al ragazzo di ingoiare qualche goccia. Ad un certo punto, però, si è arreso ai militari: «Dovevo solo scegliere come morire: o solo nel deserto, ed era cosa certa, o per mano loro, ed avevo ancora qualche speranza».

In carcere è entrato il 6 settembre e c’è rimasto fino al 6 novembre, quando è riuscito ad evadere. «Non era una vera e propria prigione: erano magazzini usati per conservare le merci. Senza finestre, con una temperatura che già alle nove del mattino arrivava ai cinquanta gradi. Il cibo era pochissimo, quel tanto per non farci morire, anche se molti morivano lo stesso. Eravamo in 550, provenienti da undici paesi diversi. C’erano uomini, molte donne gravide, molti bambini piccoli. Non c’erano bagni e tutti dovevamo fare i nostri bisogni nel grande magazzino. Il fetore era insopportabile. Ogni cosa doveva essere pagata, anche dieci, cento volte più del suo valore reale. In cambio, anche un supplemento di bastonate».

Nelle varie tappe del viaggio, Bah aveva già speso molti soldi. Così, ad Agadèz, ancora in Niger, era riuscito a farsi spedire altri duemila euro dalla famiglia, perché lo avevano avvisato che attraversare il deserto libico, senza denaro in tasca, sarebbe stata morte certa.

Dal sud della Libia è partito il 6 novembre ed è arrivato a Tripoli alla fine di gennaio. «Pagando molto a persone che si erano organizzate bene per guadagnare il più possibile dalla nostra disperazione - continua -. Anche gli africani di pelle nera, residenti in Libia da molti anni, erano schierati con i libici per taglieggiarci». Di mancia in mancia, Bah è riuscito a raggiungere la capitale dove è vissuto per circa quattro mesi. Fino a quando i ribelli non l’hanno invasa ed è iniziata la caccia ai «neri», accusati di essere al soldo di Gheddafi. Bah è stato picchiato e messo alle strette. «Non avevo scelta: o partire, o finire nelle mani dei ribelli, che mi avrebbero trucidato».

Insieme ad altri sventurati, ha dato tutto quello che aveva a chi tirava le fila degli scafisti - in tutto, il viaggio è costato quasi settemila euro, una fortuna per chi vive in un paese in cui il reddito medio è di circa 600 euro l’anno - ed è salito su un barcone con altre 444 persone. «Sono partito alle 17,03 del 26 maggio 2011, ricordo benissimo. E siamo arrivati a Lampedusa il 28 maggio, dopo essere stati soccorsi in mezzo al mare dalla guardia costiera, avvisata da un pescatore». All’arrivo in Italia Bah era ancora minorenne ed ha vissuto in alcuni centri per minori, prima in Sicilia poi a Lecco, dove è riuscito a conseguire la licenza della scuola dell’obbligo. Da maggiorenne, è stato indirizzato dal Centro italiano rifugiati di Roma all’Adl a Zavidovici di Brescia. Ed è iniziato il suo percorso verso la «normalità». Ora lavora in una panetteria di via Ducco, dal signor Armando

«Ci sono persone speciali che mi hanno accolto e mi aiutano. Ma in alcuni momenti, quando penso ai morti nel Mediterraneo, nella mia testa si innesca un corto circuito che mi blocca. Ed è in quei momenti, tanti, che penso quanto sia necessario che mi impegni affinché nessuno di noi debba più scappare».

 

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