«Legge e ordine» verbo di Trump, ma ritira la Guardia Nazionale
«Law and Order»: è lo slogan che Donald Trump vuole trasformare nel mantra della sua campagna elettorale in questi cinque mesi che lo separano dal voto. Un richiamo all’ordine e alla legalità che il tycoon ripete ossessivamente in queste ore, all’indomani dell’ondata di manifestazioni in ogni angolo d’America contro il razzismo e la polizia violenta. Proteste pacifiche nel nome di George Floyd, come l’imponente marcia di Washington a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone e che il presidente su Twitter ha liquidato con poche parole: «Erano molti meno del previsto».
Trump ha quindi ordinato il ritiro degli uomini della Guardia Nazionale, chiamati per sostenere le forze dell’ordine nei giorni dei disordini: per il momento non servono più anche se, ha ammonito, «potrebbero tornare se necessario». Ma l’immagine di una Casa Bianca assediata e blindata e quella di un Paese in fiamme hanno per giorni fomentato la rabbia del presidente, fino a sfiorare uno scontro senza precedenti con il Pentagono e con i vertici militari. Trump infatti lunedì scorso durante una drammatica riunione alla Casa Bianca si era spinto a chiedere con forza la mobilitazione di almeno 10 mila soldati per spegnere le proteste. Non solo a Washington ma anche nelle altre città, a partire da New York dove le manifestazioni sono degenerate in una vera e propria rivolta con vandalismi e saccheggi. Scontro presidente-difesa. A stoppare le bellicose intenzioni del presidente sono stati il segretario alla difesa Mark Esper e il capo di stato maggiore delle forze armate, il generale Mark Milley.
Esper, dopo un duro confronto, alla fine ha messo a disposizione circa 1.600 militari nella regione di Washington, pronti a supportare in caso di necessità i 5.000 uomini della Guarda nazionale già mobilitati. Ma il confronto più teso sarebbe stato quello col generale Milley, contrario all’intervento dell’esercito e a un eventuale ricorso all’Insurrection Act, legge del 1807 che permette al presidente di schierare i militari all’interno del Paese a fini di ordine pubblico. Un’ipotesi che il generale avrebbe bollato come «illegale», spingendolo ad allertare via telefono alcuni dei massimi responsabili del Congresso, come la speaker della Camera Nancy Pelosi, terza carica dello Stato.
Ora in molti si interrogano sul futuro di Esper e Milley nell’amministrazione: potrebbero essere loro le prossime vittime delle purghe del tycoon. Intanto massima resta l’allerta per il possibile ritorno in strada di migliaia di manifestanti, soprattutto in coincidenza con le ulteriori commemorazioni di Floyd a Houston, sua città d’origine. Restano al momento impresse le immagini della grande e pacifica prova di forza data dai manifestanti sabato, in America e nel resto del mondo: il ponte di Brooklyn e il Golden Gate di San Francisco attraversati da enormi cortei; il muro di barriere e recinzioni attorno alla Casa Bianca colorati con fiori, cartelli, bandiere; decine di migliaia di persone in ginocchio; l’enorme scritta gialla «Black Lives Matter» fatta dipingere dalla sindaca di Washington sulla strada che porta alla Casa Bianca, in sfida a un presidente che voleva militarizzare l’America.
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