Elezioni Usa, la stagione trumpista non è al tramonto

La vittoria di Joe Biden fa esultare molti ma a causare le reazioni più forti è la sconfitta di Donald Trump. Il presidente uscente, divisivo per natura, è stato negli ultimi quattro anni un elemento di rottura sia per la politica internazionale, sia per la politica interna statunitense. Un modello per il populismo globale e ad ogni latitudine l’emblema di un riscatto del popolo contro fantomatiche élites corrotte ed autoreferenziali.
È lunghissima la lista dei politici che hanno cercato di emulare The Donald in questo quadriennio. Innanzitutto c’è chi, nel mondo, ha provato ad assecondare il paradigma securitario trumpiano law&order, legge e ordine, dal brasiliano Jair Bolsonaro al presidente delle Filippine Rodrigo Duterte.
Nel Vecchio continente Trump è stato fonte d’ispirazione per tutti i movimenti populisti: dal Front National alla Lega, che hanno vissuto nel 2016 un annus mirabilis tra vittoria del referedum sulla Brexit e appunto l’affermazione del magnate alle presidenziali americane.
Lo slogan «Make America great again» in Europa è stato declinato dai populisti nostrani per promuovere una nuova stagione sovranista - con propositi di addio all’euro e politiche nazionali protezionistiche - e al contempo per sferrare un colpo mortale all’Unione europea (istituzione che lo stesso Trump non ha mai amato).
Una nuova primavera populista che ha illuso di poter portare tutti i movimenti europei a riscrivere le agende politiche dei singoli Stati, ma soprattutto che ha sortito un contraccolpo culturale in ampie fasce di elettorato che hanno iniziato a credere che la risposta alla crisi delle liberaldemocrazie fosse una dose in più di autoritarismo o quanto meno un leaderismo, ben incarnato da Trump (e nei singoli casi nazionali dai suoi alleati/emuli).
Cosa accadrà ora? Come ha fatto giustamente notare da queste stesse pagine Mario Del Pero, Trump è stato battuto, ma non lo è certamente il trumpismo. Non va dimenticato, inoltre che il tycoon ha avuto una parabola diversa da quella abitualmente percorsa dai leader populisti. Nel 2016 ha vinto le primarie repubblicane e ha costretto il partito a sostenerlo: ma era un leader senza popolo. Quello si è palesato al voto presidenziale e ha preso forma nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, durante i quali il presidente ha perseguito da un lato la disarticolazione del sistema delle relazioni internazionali su cui ha poggiato l’egemonia globale degli Stati Uniti, e dall’altro si è posto alla guida di un ideale internazionale populista, picconando con messaggi violentissimi molte prassi democratiche e agendo come se pesi e contrappesi del sistema Usa fossero limiti al suo potere. Ma alla fine ha perso alle urne forse perché quello che, secondo molti osservatori, a tratti è parso un vero e proprio autoritarismo, è stato condotto in maniera maldestra e poco sofisticata.
Quindi si potrebbe già fin d’ora azzardare che il prossimo candidato repubblicano per le Presidenziali 2024 (a meno che non sia lo stesso Trump) sarà comunque trumpista, ma probabilmente molto più preparato e competente. Senza dimenticare che i messaggi distruttivi funzionano molto meglio dall’opposizione, hanno tendenzialmente più presa sull’opinione pubblica perché non devono fare i conti con la complessa attività del governare.
Quindi fra quattro anni dall’America potrebbe arrivare una nuova generazione di leader populisti a cui ispirarsi. Nel frattempo qualcosa sicuramente cambierà in Europa. Innanzitutto, come sosteneva qualche giorno fa il Financial Times, la vittoria di Biden ridurrà il vento nativista che soffia nelle vele dei Conservatori britannici che ispirati da Trump di questi tempi sono in preda ad una deriva quasi alla Orban.
Il premier britannico Johnson, che è stato tra i primissimi a congratularsi con il neopresidente democratico, dovrà rivedere sicuramente la sua linea politica spesso troppo intransigente e più vicina a quella di Nigel Farage che a quella eurocritica ma dialogante del suo partito. Insomma un accordo con l’Ue sulla Brexit diventa ora probabile.
Per tutti gli altri populisti europei, che invece non sono al governo - a parte i polacchi ma che perseguono un nazionalismo antirusso e quindi comunque in linea con Washington- è una brutta perdita soprattutto dal punto di vista simbolico, perché Trump era fonte di grande accreditamento. Ma resta il fatto che il loro percorso è stato opposto a quello di The Donald: hanno costruito il loro successo su un popolo e su un elettorato apparentemente più solidi che certo hanno poi accolto con piacere le sfumature trumpiste di questi anni.
Per questo dopo le prime giornate passate a seguire la narrazione trumpiana dei brogli elettorali, tutti cercheranno di ribadire la fedeltà all’alleato americano ovviamente in chiave antieuropeista. A quel punto molto dipenderà dalla capacità di Biden di riallacciare rapporti amichevoli con i partner europei.
Svanito, al momento, il grande sogno di un’internazionale populista euroatlantica ci saranno molte altre debolezze delle democrazie occidentali a cui aggrapparsi per provare a passare all’incasso elettorale: dalla crisi pandemica ai tetri scenari economici che si profilano anche per il prossimo anno. Sull’incertezza economico-sociale e sulla montante rabbia il trumpismo negli Usa e il populismo in Europa potranno continuare a restare attori di primo piano. Con buona pace di Trump.
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